Can
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- Monster
Movie
- Soundtracks
- Ege
Bamyasi
- Future Days
- Soon
Over Babaluma
- Landed
- Unlimited
Edition
- Saw
Delight
- Flow
Motion
-
Tago Mago
Del
lontano 1969
rimane
oggi poco che si possa dire vivo dal punto di vista della
musica. Fra le cose di quell'anno si ascolta, sempre
volentieri, il primo, irresistibile lavoro degli Stooges
e capita che, in odor di nostalgia, si vada a
rispolverare Let
It Bleed. Ma fra tutti, il disco che meno degli
altri mostra i segni dell'invecchiamento è Monster Movie dei Can. Altrettando capita
se pensiamo alla prima metà degli anni '70, dei quali Future Days resta una dei documenti più
significativi e meno conosciuti. Se vi dicessi poi che
tra i più convinti sostenitori del gruppo di Colonia ci
sono stati e ci sono Siouxsie Sioux, Mark Smith dei Fall,
Ian Curtis dei tre Cabaret Voltaire, la cosa potrebbe
interessarvi? Forse può farlo di più l'indiscussa stima
della quale i Cam hanno goduto tra buona parte della
critica d'oltremanica. Ma certamente ciò che più vale
la pena sottolineare è il debito di riconoscenza che
alcuni dei più popolari musicisti di questi ultimi anni
devono al gruppo di Holger Czukay: la coppia Eno/Byrne
come i P.I.L., i DNA insieme ai Throbbing Gristle,
arrivando fino ai Joy Division. Musicisti tra di loro
molto diversi; eppure tutti, senza ombra di dubbio,
attenti ascoltatori della musica dei Can.
La storia inizia a Colonia. E', quindi, il 1969: anno di
grandi stimoli culturali in quasi tutto l'occidente; la
Germania è, insieme alla Francia e all'Italia, dentro
l'occhio del ciclone che investe l'Europa. In Germania più
che in Italia, i fermenti e le velleità trasformative
riguardano direttamente la produzione artistica.
Quell'anno Holger Czukay, Irmin Schmidt, Michael Karoli e
Jaki Liebezeit si riuniscono per dare origine ai Can.
Schmidt è reduce da anni di studi intensi alle scuole di
Luciano Berio e Karl Heinz Stockhausen; è profondamente
insodisfatto dell'attività di direttore d'orchestra e
concertista appena intrappresa. La medesima
insoddisfazione, con le stesse origini, è anche Czukay.
Liebezeit proviene, invece, dal mondo del jazz ed è
considerato un "signor batterista". Karoli è
un classico freak: capello lungo, chitarra al collo.
volto angelico e un amore speciale per i "trips".
I quattro scovano, chissà dove, un cantante negro,
innamorato del soul, Malcolm Mooney, e si parte.
Monster
Movie
è un disco incredibile per quei tempi. Esce auto-prodotto
e viene distribuito attraverso i cosidetti canali
alternativi. Diventa rapidamente un mito; mentre la
prima, limitatissima tiratura va rapidamente esaurita. Il
disco verrà ristampato due anni dopo, quando il gruppo
troverà finalmente un contratto. Che dire di quella
musica? Tuttora suona ricca, vitale, talvolta,
irresistibile. Father
Cannot Yell, il brano di apertura, scandisce con
impressioante anticipo i ritmi che dieci anni dopo
saranno il nerbo del migliore post-punk: la chitarra è
tagliente e minimale, il basso espone temi che fanno
impallidire Jah Wobble e Peter Hook, la voce canta rabbia
e disperazione inconsuete. Tuttora impressionante. Ma
l'episodio in assoluto più sconcertante resta la
memorabile You
Doo Right che assegna loro automaticamente un posto
in qualsiasi storia della musica moderna; l'uso della
sezione ritmica è l'aspetto di radicale novità che
balza subito agli occhi, inaugurando la strada
dell'interazione tra diverse culture musicali, di cui fa
testo un intermezzo esclusivamente percussivo
assolutamente eccitante. Evidentemente non si tratta di
un lavoro in cui la continuità e la coerenza riescono a
domare gli istinti: i pezzi sono dilatati secondo il
costume dell'epoca (più di venti minuti You Doo Right, registrata dal vivo a
Stoccolma); l'improvvisazione guida ogni tanto il gruppo
in vicoli ciechi, mentre affiorano, qua e là, singolari
ingenuità. Le intuizioni, però, rimangono sorprendenti
e impongono immediatamente i Can come una delle bands più
intransigenti e lungimiranti del panorama rock europeo.
La grande personalità musicale dei cinque riscatta molte
delle loro ingenuità e di Monster Movie si finiscono per ricordare,
più della completa anarchia formale, la grande magia di
alcuni momenti dell'improvvisazione "live"
sorretta da ritmiche tribali, l'eterea psicadelia
accennata in Mary,
Mary So Contary (canzone semplice e
dolcissima) e l'istintiva eversività di Father Cannot Yell. In fatto di radicalità e
irruenza sperimentale, prima di loro solo Doors e Velvet
Underground seppero avere la lingua più sciolta.
Un anno dopo, nel 1970, sempre attraverso la loro
etichetta autogestita (la Spoon Records), viene fatta
uscire un'antologia che raccoglie alcuni episodi della
loro intensa attività di compositori di colonne sonore.
L'album è intitolato, lapidariamente, Soundtracks e segna un momento
decisamente interlocutorio nella vicenda del gruppo:
troppo eterogeneo e privo di unità per poter essere
guidicato. Un'indicazione utile,, comunque, per conoscere
l'impegno dei Can su più fonti che sfocerà, in seguito,
nella splendida colonna sonora di Alice Nelle Città, il
film di Wim Venders. Nel frattempo Malcolm Mooney si
ammala e decide di abbandonare il gruppo. Lo sostituisce
un giovane, sfigatissimo ragazzo giapponese, Damo Suzuki.
Un disco doppio, formato ponderoso e impegnativo, è la
tappa successiva. Tago Mago è fatto di musica dalle
innumerevoli ispirazioni, i mille riferimenti e le
infinite soluzioni. La libertà espressiva non sottostà
ad alcun vincolo e indossa, di volta in volta, i panni
dell'ipnosi psichedelica (le fasi più concitate di Paperhouse), della scarna radicalità
(Mushroom
che
cita, con otto anni di anticipo, i Cabaret Voltaire),
giungendo fino ai travolgenti azzardi di nuovo rock che
scolpiscono nella memoria un brano come Oh Yeah dove viene giocata la carta
del modermismo integrale con fulminante preveggenza. Ma
il gioco non è finito qui: è bene che tutti gli
estimatori del "modern-funk" (quello targato
Eno e Byrne in particolare) si sentano una volta almeno Halleluwah che suggerisce, in spazi
dilatati all'inverosimile, intuizioni acutissime. In
questi brani lunghi, governati solo dall'improvvisazione,
si possono isolare istanti di bellezza assoluta e immensa
intelligenza musicale. L'insieme è ancora contradditorio
in molte sue parti, ma la forza d'uto di Halleluwah non si può dimenticare
facilmente. Le carte vengono mischiate con accuratezza
estrema: la rarefatta quiete di Bring Me Coffe Or
Tea
si alterna con l'ammonimento elettronico di Peking-O, che vede agire antesignane
drum machines e tremendissimo sperimentale alla Throbbing
Gristle. Forse è proprio questo alto tasso di
sperimentalità che differenzia Tago Mago da tutti gli altri dischi
dei Can: si tratta, infatti, di un lavoro in cui viene
alla luce con chiarezza estrema il loro intento
ostinatamente esplorativo. Musica di frontezza, suoni in
movimento; spostamenti continui e infinite trasgressioni.
Il rifiuto di modelli ai quali rifarsi in modo univoco,
insieme alla "verve" anarchica nemica
dell'ideologia, li conduce passo passo verso territori in
cui nessuno oserà tornare prima di un buon numero di
anni. Aumgn è un manifesto di indubbia
statura sperimentale: vengono anticipati, quasi
involontariamente, sembra, temi come la ricerca etnico-musicale,
le soluzioni "ambientali" e certo eccitante
"rumorismo industriale" che sono oggi
patrimonio dell'avant-garde pià stimata.
Buona parte della critica ufficiale cita Ege Bamyasi come il miglior lavoro dei
Can; vediamo un po'... ricompare il gusto naif per la
semplicità massima (Sing Swan Song rimanda direttamente alla
rarefatta psicadelia di Syd Barrett); ma il pezzo forte
del disco è sicuramente Spoon, incredibile numero uno
nelle classifiche tedesche dei singoli di quei giorni,
una ballata eterodossa movimentata da un ritmo dolce ma
deciso. Altrove fa invece capolino quel minimalismo
prossimo all'ipnosi che si ritroverà, approfondito ed
esposto con maggiore precisione, nella più classica no-wave
newyorkese (da ascoltare Pinch e Soup); Soup, particolarmente, propone
nuove strategie per la formulazione della soggettività
musicale, sostituendo ai canoni del rock un autentico
caleidoscopio di infinite citazioni, così infrangendo
confini ritenuti, fino ad allora, invalicabili. Damo
Suzuki offre, proprio in questo pezzo, la sua
interpretazione del ruolo di cantante più viva ed
intensa, distinguendosi da qualsiasi riferimento
razionale, coinvolto in un trasporto emotivo che, insieme
al resto del gruppo, lo conduce alle soglie di universi
sonori completamente inesplorati. Può essere sufficiente
dire che oggi, iniziato 1982, Ege Bamyasi è ancora opera di tendenza
non circoscrivibile a un ambito rigidamente storico.
Se Ege
Bamyasi può essere considerato un autentico
manifesto di intenzioni esposto finalmente in modo
sintetico, Future
Days
è l'autentico capolavoro di Czukay e soci. Non solo; mi
azzarderei a indicarlo come uno tra i pochi dischi
veramente fondamentali (come si usa dire). Già il brano
di apertura, che dà il titolo a tutto l'album, raggiunge
apici di bellezza insuperata: un andamento in
progressione, cauto ed irresistibile; i sensi restano
sbigottiti da tanta, dolcissima intelligenza. Future Days è il pezzo che riassume in
sè la tendenza del gruppo a costruire ballate obblique
per un "quarto mondo" di cui qualcuno, molto più
tardi, determinerà la rilevanza. Le voci sono pescate a
caso per il mondo, uniche e disperse fra milioni di
altre, come Eno e Byrne sapranno fare con altrettanza
perizia otto anni dopo; la perfetta fusione di stili,
ritmi e cadenze di provenienze così diverse illustra da
sola la devastante inventiva dei cinque. Ma Future Days non finisce qui: c'è Spray con il suo jazzismo nervoso
guidato dal drumming intricato di Jaki Liebezeit; c'è Monnshake con il suo fascino delicato
e crepuscolare. C'è, alla fine, sopratutto Bel Air: venti minuti di musica
improvvisata di semplice complessità e complessa
semplicità, di inaudita forza espressiva, di
ineguagliabile comunicativa. Ma non si possono raccontare
queste cose; si tratta di sensazioni uniche e
irripetibili. Future
Days
potrebbe fare, ancora oggi, scalpore. Nel frattempo, in
concomitanza con l'uscita di questo disco, i Can perdono,
per la seconda volta, il cantante: Damo Suzuki scompare
come era apparso, dal nulla.
D'ora in poi parleremo di un quartetto: le parti vocali
verranno divise tra Karoli e Schmidt.
Pur senza toccare i punti di massima intensità raggiunti
in Future
Days,
Soon
Over Babaluma consolida le tendenze emerse nei lavori
precedenti. Per la prima volta, però, un loro disco non
stupisce, comunicando una strana sensazione di staticità.
Beninteso, questo non diminuisce assolutamente la
godibilità del disco; si ascoltano ancora magnifiche
soluzioni espressive nell'ipnotica Dizzy Dizzy o in Come Sta La Luna che approfondisce, in
chiave vagamente surrealista, il tema delle "found
voices". Nemmeno sotto il profilo della decisione
sperimentale il tiro viene abbassato: Quantum Physics gioca i primi scherzi
d'ambiente, rarefacendosi fino alkle soglie
dell'impercettibile; Chain Reaction, d'altra parte, solletica
con il suo gusto per il miscuglio e l'impasto di forme
musicali apparentemente inconciliabili. L'immagine
pubblica del gruppo non viene scalfita, perciò, da Soon Over Babaluma; ma resta in bocca uno
strano sapore, come quando si intuisce che una storia sta
per terminare.
Nello stesso anno, comunque viene dato alle stampe in
tiratura limitatissima Limited Edition (altro titolo lapalissiano)
che raccoglie tapes di periodi diversi, dai quali emerge
l'attenzione tutta particolare che il gruppo dedica alla
musica del terzo mondo e dell'Africa in particolare.
Quella che si può definire la prima fase dei Can termina
qui; ci lasciamo alle spalle l'insopprimibile insolenza
formale, l'eccitante acume premonitore, le forti
accentazioni psichedeliche. Soon Over Babaluma sembrava sottostare, in
alcuni momenti, alle regole della "standardizzazione",
ma per loro il problema, infatti, non esiste: si fanno le
valigie e si parte per la Gran Bretagna, se non altro per
cambiare aria e trovare stimoli nuovi.
Rifacendosi alla critica ufficiale, dovrebbe iniziare con
il 1975 il declino del gruppo di Colonia. L'aspetto che
viene immediatamente alla luce è la correzione di rotta
impressa nella traiettoria artistica, sintetizzabile in
un graduale abbandono dei furori sperimentali degli
esordi in favore di una più accorta ortodossia formale.
Ma questa ortodossia è tale fino a un certo punto: il
loro primo disco in terra d'Albione, Landed, è ancora combattuto tra
le due ipotesi. Si osservano gli ultimi aneliti radicali
del gruppo (Unfinished) convivere con il loro
godibile e avvincente esotismo (Half Past One); annotando, però,
indecisioni preoccupanti che vengono alla luce
nell'irresoluta Vernal Equinox, mentre si srotola
sgangheratamente Full Moon On The Highway e Hunters And
Collectors non trova il modo di mostrarsi almeno
dignitosa. Landed lascia perplessi i fans
tradizionalisti e non riesce, d'altra parte, a far
breccia nel mercato britannico.
L'ultimo colpo di coda i Can lo danno nella Gran Bretagna
del 1976, mentre già qualcuno sta meditando la truffa più
grande di tutte,
I Want More, il singolo tratto dal loro
album di quell'anno, Flow Motion, sale alto nelle charts,
esemplificando con sorprendente chiarezza (la classe non
è acqua, dopotutto...) le direttive di danze moderne
ancora di là a venire. Proprio quest'ultima intuizione,
coniugata al loro cosmopolitismo espressivo, fa accendere
gli ultimi fuochi di questo incendio che sembrava grande
e inestinguibile. I Want More insieme alla sua appendice ...And More, può ancor far invidia a
molti nuovi artigiani di modern dance mentre su quello
stesso 'Lp Smoke coglie spunti di autentica
e convincente africanità. Questo è ciò che accade
prima che tutto si estingua quasi definitivamente. In
quello stesso anno esce Unlimited Edition con altri inediti, tra i
quali si possono scovare, avendo un po' di pazienza, le
vestigia di un grande passato (Gomorrha, Fall Of Another Year e Trascendental
Express innanzitutto); ma l'insieme è troppo
confuso ed eterogeneo per poter essere valutato con
credibilità critica. Con il 1977 inizia la parabola
inequivocabile discendente: Czukay smette di suonare il
basso per dedicarsi a una sorta di lavoro di
supervisione; entrando nell'organico del gruppo musicisti
che nulla hanno a che spartire con lo spirito che lo ha
animato in passato (i due ex Traffic Rosko Gee e Rebop
Kwaku Bah. I dischi che seguono (Saw Delight nel '77 e Out Of Reach nel '78) segnano la fine di
una storia; dischi nè belli nè brutti, semplicemente
inutili; la musica è "qualsiasi" e questo non
si addice ai Can. Senza cessare definitivamente, la vita
del gruppo entra, a questo punto, in uno stato che si può
chiamare di "animazione sospesa".
Sparsi per il mondo, tendenti alla pigrizia, restii a
fare musica; dei quattro solo Czukay e Schmidt tentano la
carta dei lavori solisti: confusamente e senza la
necessaria convinzione Schmidt; anch'egli poco convinto,
ma certamente più brillante, Czukay. (...)
Alberto
Campo
da Rockerilla
n° 21 febbraio 1982
|
- Monster Movie
(1968) Spoon 004 - vinile
1. Father Cannot Yell 7.01 - 2. Mary, Mary, o Contrary 6.16 - 3. Outside My Door 4.06 - 4. You Doo Right 20.14
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki
Liebezeit, Irmin Schmidt, Malcom Mooney
Produced by Holger Czukay
Recorded at Live at Schloss Norvenich
Cover by Wandrey
Con le loro esibizioni i Can incantarono il padrone del
castello di Scholoss Norbenich che concede loro un salone
del maniero come sala prove e di registrazione.
E' in quel momento che Malcolm Mooney, cantante di
colore, entra a far parte della band per caratterizzare
con la sua voce monocorde e violenta, la musica dei Can.
Monster Movie, primo
album ufficiale del gruppo, contiene quattro lunghi brani
composti nell'atto dell'esecuzione, ma il caos sonoro dei
commenti a Picasso si è plasmato in forma di canzoni.
Con questo lavoro i Can saldano, tutto e subito, il loro
debito con le fonti ispirative di matrice rock.
L'iniziale Father Cannot Yell
si riannoda al battere plumbeo e alle corde urticanti dei
primi Velvet Underground, mentre la successica Mary,Mary,
So Contrary parte come una lisergica
ballata pinkfloydiana per essere poi stuprata sui
medesimi "velluti sotterranei".
E se Outside My Door
strizza l'occhio alle garage band americane di quegli
anni, per poi farle impallidire nel frenetico crescendo
della parte finale, la vera novità sono i venti minuti
di You Doo Right. Un
rozzo sabba incandescente con le versatili pelli di Jaki
Liebezeit vero motore del gruppo, assecondate dal basso
essenziale, disitratato di Czukay e dall'organo cosmico
di Schmidt, con la voce da zombie di Mooney e la
chitarra, forse ancora immatura, di Karoli.
Antonello
Antonelli da World Music n° 28 settembre 1997
- Soundtracks
(1970) Spoon 005 - cd
1. Deadlock (from Deadlock) 3.25 - 2. Tango Whiskyman (from Deadlock) 4.02 - 3. Deadlock (titelmusic) 1.40 - 4. Don't Turn The Light O,
Leave Me Alone (from
Cream) 3.42 - 5.
Soul Desert (from
Madchen Mit Gewalt) 3.46
- 6.
Mother Sky (from
Deep End) 14.30 - 7. She Brings The Rain (from Bottom - Ein Grober
Graublauer Vogel) 4.04
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki
Liebezeit, Irmin Schmidt, Damo Suzuki, Malcom Mooney
Produced by Holger Czukay
Recorded at Schloss Nurvenich on 1970
Engineering by Holger Czukay
- Ege Bamyasi
(1971) Spoon 008 - vinile
1. Pinch 9.28 - 2. Sing Swan Song 4.18 - 3. One More Night 5.35 - 4. Vitamin C 3.34 - 5. Soup 10.25 - 6. I'm So Green 3.03 - 7. Spoon 3.03
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki
Liebezeit, Irmin Schmidt, Kenji Suzuki
Produced and engineering by Holger Czukay
Recorded at Inner Space
Alla fine del 1971 i Can decidono di allestire uno studio
di registrazione in proprio, lasciano quindi lo Schloss
Norvenich e affittano il cinema abbandonato da tempo di
un paesino vicino Colonia. Ne rivestono i muri con 1.500
materassi dismessi dall'esercito e ottengono l'Inner
Space Studio, che all'interno assomiglia a un pachiderma
ma che fornisce un'ottima acustica per le jam del gruppo.
Il risultato è l'uscita nel 1972 dall'ottimo Ege
Bamyasi, dove la visionarietà dei
precedenti lavori viene razionalizzata e levigata, senza
per questo risultarne svilita. Le due facciate del vinile
si aprono ognuna con un brano free-form sui dieci minuti,
seguito da composizioni più brevi e maggiormente
strutturate come canzoni.
L'iniziale Pinch rantola
energica sul lavoro percussivo mobile come il mercurio di
Liebezeit, mentre il resto dei musicisti interviene
libero pur seguendo sempre un sottile disegno costruttivo.
Maggiormente architettata Soup su
l'alro lato, che pure riesce a integrare nella sua
struttura sbornie rumoristiche di libertà assoluta,
vicine talvolta a certe espressioni tradizionali del
teatro No giapponese. L'ovvietà non alberga da queste
parti, ma neanche nelle restanti cinque canzoni,
costruite sempre sull'essenza del ritmo più che sulle
enigmatiche e sfuggenti melodie.
Un paio di questi brani, poi, porteranno i primi successi
commerciali ai Can e diventeranno "cavalli di
battaglia" nelle esecuzioni in concerto. Vitamin
C, infatti, sarà scelta dal regista
americano Samuel Fuller per i titoli di testa di un suo
film, mentre Spoon
diventerà la musica di una serie di telefilm per la Tv
di storie di gangster. Il grande successo in Germania
della serie televisiva porterà l'edizione su singolo del
brano nella Top Ten dei dischi più venduti; Spoon
era uno dei primi brani in cui una drum machine
interagiva con un batterista umano, sempre il grande
Liebezeit, per l'occasione ancora più robotico della
macchina stessa.
Antonello
Antonelli da World Music n° 28 settembre 1997
- Future Days
(1973) Spoon 009 - vinile
1. Future Days -
2. Spray -
3. Moonshake -
4. Bel Air
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki Liebezeit, Irmin
Schmidt, Kenji Damo Suzuki
Produced by Holger Czukay
Recorded at Innespace Studio
Per molti è il disco più influente dei Can, anche se le intuizioni qui
sono molto più sottili e impalpabili rispetto al passato.
Quattro pezzi, di cui uno, Bel Air, occupa tutta la seconda
facciata e in qualche modo chiude il cerchio iniziato quattro anni prima
con You Doo Right.
E' chiaro come la musica dei Can si sia evoluta, perfezionata,
raffinata, in un suono che ha perso aggressività e rugosità in favore di
sottili sonorità trasversali derivate dalle lezioni di Stockhausen e
approdate a un originale tecno prog a espansione variabile, anche verso
il curioso pop di Moonshake.
Più che giorni futuri sono suoni futuri, visto che l'album annuncia
molta della musica che seguirà, dall'ambient al world jazz
Cesare Rizzi da The Prog Side Of The Moon ed. Giunti (2010)
- Soon Over Babaluma
(1974) Spoon 010 - cd
1. Dizzy Dizzy 5.40 - 2. Come Sta La Luna 5.44 - 3. Splash 7.47 - 4. Chain Reaction 11.12 - 5. Quantum Physics 8.33
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki
Liebezeit, Irmin Schmidt,
Produced by Holger Czukay
Recorded at Inner Space Studio
Nel 1974 esce una tiratura ridotta di 15.000 copie Limited
Edition, una raccolta di materiale
inedito degli anni precedenti che mostra ulteriori
aspetti della musica dei Can e che verrà rieditato
successivamente in tiratura normale, ampliato nel formato
di doppio Lp. Ma sopratutto viene dato alle stampe Soon
Over Babaluma, dove non compare più la
voce di Suzuki, sostituito a turno da compagni, o da voci
trovate nella radio, ma che comunque sposta ancora più
lontano l'opera dei quattro musicisti tedeschi dai
possibili modelli di riferimento. Solo i due brani Chain
Reaction e Quantum
Physics, montati insieme a formare
un'unica suite di quasi venti minuti, hanno passaggi più
propriamente vicini al rock; comunque parti costitutive
di un assai più ampio telaio che le fa scivolare, in
compagnia di tribali break percussivi, negli ultimi
languidi minuti di pura elettronica ambient.
Le prime tre composizioni sono ancora più indefinibili,
con Dizzy Dizzy che
aggredisce con un tempo metronomico più spietato di
quello di moderne drum machine e fortemente speziato da
un insinuante violino imbracciato da Karoli. Un piccolo
esercizio minimale che sposta i piani di percezione
dentro una griglia di strambo folk futurista. E poi Cone
Sta La Luna, una toccante romanza
recitata-cantata sul rollio di una rumba surrealista, con
la chitarra declamante solenni fraseggi che paiono presi
da una soundtrack wester di Ennio Morricone. A seguire
l'ascesa di Splash:
ondate cosmiche mosse dalla forza di incessanti
percussioni e dal peregrinare frenetico ancora di violino
e chitarra.
Con Soon Over Babaluma
i Can realizzano la giusta sintesi di quella musica
fantaetnica che avevano provato a immaginare in brevi
esperimenti passati e chiudono la tetralogia dei loro
capolavori assoluti. Quel blocco di opere, da Tago
Mago, che rappresenta
il punto più alto della loro espressione e che raccoglie
le loro direzioni musicali puù originali e innovative.
Se la presenza nell'organico di un cantante giapponese
era, per i canoni rock dell'epoca, quasi un'eresia, a
vedere Czukay, Libezeit, Schmidt e karoli nelle foto
delle copertine, si poteva benissimo scambiarli per
antiquati teddy boys legati al rock'n roll. Salvo che
quello che suonavano faceva più pensare a quattro
extraterrestri che, prese le fattezze di rockers umani,
non riuscissero comunque a dimenticare le musiche del
loro pianeta di origine.
Antonello
Antonelli da World Music n° 28 settembre 1997
- Landed
(1975) Virgin vil 12041 - vinile
1. Full Moon On The Highway 3.29 - 2. Half Past One 4.37 - 3. Hunters And Collectors 4.18 - 4. Vernal Equinox 8.41 - 5. Red Hot Indians 5.37 - 6. Unfinished 13.18
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki
Liebezeit, Irmin Schmidt
Produced by Can
Recorded at Inner Space Studio
Engineering by Holger Czukay
Cover by Christine
Verso la metà degli anni settanta l'industria musicale
inglese aveva cominciato a interessarsi del "krautrock",
iniziando a intuirne le potenzialità creative; il guaio
sarebbe stato che la musica tedesca tutta, resa più
malleabile dai dettami del mercato, avrebbe finito per
perdere la sua carica innovativa e originale.
Il medesimo processo toccherà anche ai Can che nel 1975
vengono ingaggiati dalla multinazionale Virgin per la
realizzazione dell'album Landed.
Il tentativo di normalizzazione è indito già nel
titolo, sostenuto sottilmente anche dalla messa a
disposizione da parte della casa discografica di
un'apparecchiatura di registrazione a 16 piste con
annesso adeguato personale.
Ciò influirà pesantemente sulla loro musica, ma in Landed
riescono ancora a resistere alle
lusinghe del capitale e realizzano un'altra buona prova
che allarga ulteriormente il campo delle loro esperienze
musicali.
L'iniziale Full Moon On The Highway,
ad esempio, sembra ispirata dal glam rock alla Bowie-Roxy
Music in auge in quegli anni, solo che i Can riescono a
trasfigurare originariamente il tutto in una sora di
amfetaminica isteria, spinta all'eccesso nel lungo
strumentale Vernal Equinox,
frenetica galoppata di brucianti chitarre hard. Gli altri
brani, come Half Past One,
Hunter And Collectors
e Red Hot Indians,
hanno comunque una costruzione così anomala, con il
ritmo ben scandito su atmosfere sempre stranite, da non
poter davvero essere incasellate nei dettami pop-rock
auspicati dalla Virgin, I tredici minuti di Unfinished,
una odissea atonale e rumoristica verso l'infinito di una
ambient ante-litteram, chiudono in bellezza un buon
successore delle prove precedenti.
Antonello
Antonelli da World Music n° 28 settembre 1997
- Unlimited Edition
(1976) Virgin 8222 - vinile
1. Gomorrha 5.46 - 2. Doko E 2.28 - 3. LH 702 (Nairobi-Munchen) 2.15 - 4. I'm Too Telse 5.13 - 5. Musette 2.15 - 6. Blue Bag (Inside Paper) 1.16 - 7. E.F.S. No. 22 1.49 - 8. TV-Spot 3.03 - 9. E.F.S. No 7 1.07 - 10. The Empress And The Ukraine
King 4.34
- 11. E.F.S.
No 10 2.01
- 12. Mother
Upduff 4.28
- 13. E.F.S.
No 36 1.56
- 14.
Cutaway 18.10
- 15. Connection
2.59 - 16. Fall Of Another Years 3.20 - 17. E.F.S. No 8 1.37 - 18. Transcedental Express 4.37 - 19. Ibis 9.16
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki
Liebezeit, Irmin Schmidt,
Produced by Holger Czukay
Recorded at Inner Space Studio
Cover by Trevor Key
Unlimited Edition
contiene ottimi esempi di quelle esplorazioni sonore cui
la band era solita abbandonarsi e che in alcuni casi
sarebbero servite come tracce per i brani definitivi. Ma
più di tutto illustra la capacità di Czukay e compagni
di ricercare in assoluta libertà l'essenza dei suoni in
qualsivoglia contesto (elettronico ma anche solo acustico)
potessero esserseli figurati, quasi una sorta di
molteplici soundtracks mentali.
In alcuni episodi il loro flusso improvvisativo sfocia
nel suono anarchico del Frank Zappa delle origini (ad
esempio LH 702 e Mother
Upduff); nella lunga Cutaway
pagano fin dal titolo il loro tributo
ad un altro maestro come John Cage, giuntando e mixando
nastri, suoni e visioni con uno spiazzante senso
dell'humor. Compaiono le "Ethnological Forgery
Series", con l'acronimo E.F.S.: sorta di bizzarri
esempi di musica etnica immaginaria che pare comunque
rielaborata su modelli reali, tanto da poter essere
considerata tra i primi esempi di ispirazione dalle
culture popolari del pianeta.
Antonello
Antonelli da World Music n° 28 settembre 1997
- Saw Delight
(1977) Virgin vil 12079 - vinile
1. Don't Say No -
2. Sunshine Day And Night -
3. Call Me -
4. Animal Wave -
5. Fly By Night
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki Liebezeit, Irmin
Schmidt, Rosko Gee, Reebop Kwaku Baah
Produced by Can, Reebop Kwaku Baah and Rene Tinner
Recorded at Innerspace Studio
Engineering by Rene Tinner
- Flow Motion
(1976) Virgin w 2071 - vinile
1. I Want More 3.29
- 2. Cascade Waltz 5.35
- 3. Laugh Till You Cry-Live Till You Die 6.43
- 4. ...And More 2.43
- 5. Babylonian Pearl 3.29
- 6. Smoke 5.19
- 7. Flow Motion 10.23
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki Liebezeit, Irmin
Schmidt, Rene Tinner, Peter Gilmour
Produced by Can
Recorded at Innerspace Studio
Engineering by Holger Czukay and Rene Tinner
Cover photo by Michael Karoli
- Tago Mago
(1971) Spoon 006 - cd
1. Paperhouse 7.29
- 2. Mushroom 4.08
- 3. Oh Yeah 7.22
- 4. Halleluhwah 18.32
- 5. Aumgn 17.22
- 6. Peking O 11.35
- 7. Bring Me Coffee Or Tea 6.47
Musicians:
Holger Czukay, Michael Karoli, Jaki
Liebezeit, Irmin Schmidt, Damo Suzuki
Produced by Can
Engineering by Holger Czukay
Recorded at Live at Schloss Norvenich on 1971
Germania, fine anni ’60, Colonia.
Irmin Schmidt, di ritorno da un viaggio a New York, aggancia Holger
Czukay, Michael Karoli, Jaki Liebezeit. Nascono i Can, che, nel castello
di Norvenich, in una sala banchetti virata in studio di registrazione
permanente, si allenano a diventare il primo gruppo post rock della
storia. Riassumibili così in modo barbaro le premesse di Tago Mago,
l’occasione della ristampa nel CD ibrido super audio di tutta la prima
carriera dei tedeschi, incluso questo loro capolavoro, è buona per
scrutare a posteriori in quell’avamposto del futuro (non plus ultra del
kraut rock, germoglio di tante tendenze) e vedere il perché, già, di
quel “post rock”. Perché Germania fine anni ’60, significasse Germania,
anno zero. Colonia. Irmin Schmidt, tastierista, tornato dunque dal
viaggio a New York che gli ha aperto gli occhi sul minimalismo e sul
rock, aggancia Holger Czukay, chitarrista passato al basso, Michael
Karoli, chitarrista rimasto tale, e Jaki Liebezeit, batterista free jazz
tra i più fantasiosi trasformatosi in macchina umana del ritmo, oltre a
Daniel Johnson, americano presente solo nelle primissime registrazioni.
Dall’insieme di estirpati da settori sperimentali, classici, jazz,
schierati a manipolo rock d’avanguardia, nasce una delle più influenti
band della storia del genere. La sala concessa dal proprietario del
castello di Norvenich è la base operativa (più tardi sostituito con un
altro studio), quartier generale ove prendono forma le incisioni e
persino i primi spettacoli, degli happening più che dei normali
concerti. La chimica del gruppo è tutta particolare. Schmidt, fondatore,
ha un background ultracolto, è già un direttore d’orchestra avviato;
degli altri, chi è anche lui stato corsista di Stockhausen (Czukay), chi
giovane allievo dello stesso Czukay (Michael Karoli), e chi, come
Liebezeit si è formato in ambito jazz. Malcolm Mooney, che presta la
voce al primo LP, Monster Movie è uno scultore afroamericano
conosciuto dalla moglie di Smith, Hildegarde. Kenji “Damo” Suzuki, i Can
lo conobbero invece che si esibiva in strada, a Monaco. Perfetto. Da
quel momento è la voce. Suzuki, meno dilettantesco, meno impulsivo,
faceva sì il busker a Monaco, ma con in curriculum una partecipazione a
Hair di Andrew Lloyd Webber. Mooney si era perso di testa nella musica
del gruppo ed era tornato negli USA. Damo, con un non-stile meno serrato
e più melodico, influisce in modo diverso; comunque i Can la loro
autodeterminazione strumentale non hanno bisogno di ritagliarsela - è
già un loro presupposto. Tolti i punti di contatto con Frank Zappa,
Velvet Underground, Hendrix, Pink Floyd, i Can divergono dal solo rock &
roll di matrice anglosassone, si spingono molto più avanti dello stesso
prog e ora verso James Brown, ora verso Lee Perry, John Coltrane, Steve
Reich, Miles Davis, lo estendono e tirano come si farebbe con un
elastico.
Il modo di operare fa la differenza, infatti, agendo in post produzione
come il Miles Davis di Bitches Brew, i tedeschi prima
improvvisano per ore e ore incidendosi su di un registratore due piste,
quindi “edizionano” quanto sin lì ottenuto dopo aver accuratamente
selezionato tranci significativi delle loro “composizioni istantanee” e
assemblando così il prodotto finito. Dopo Monster Movie del 1969
(registrazioni antecedenti vedranno la luce in anni molto più tardi in
Prehistoric Future e Delay 1968), contenitore di pezzi
quali Father Cannot Yell (post Velvet ma pre Wire, Joy Division,
Fall, Pere Ubu, Sonic Youth, Mission Of Burma, Jesus And Mary Chain,
Slint e un sacco di altre cose), il rock acido di Outside My Door
(la chitarra rimugina il riff di Interstellar Overdrive dei Pink
Floyd, e l’armonica un tema da folk blues nordamericano) e la
lunghissima sessione tribale di Yo Doo Right, dopo le musiche
staccate raccolte in Soundtracks, tra cui la mantrica Mother
Sky e l’inusualmente soffice She Brings The Rain, e prima di
Ege Bamyasi e di Future Days, che in qualche modo
certificarono la statura assoluta di questo quintetto, Tago Mago,
del ’71, piazza i suoi sette memorabili componimenti. Nella lunare “Paperhouse”,
raga spiraliformi e un ostensorio rock blues di Michael Karoli, il più
giovane e l’unico con un retroterra rock, strisciano tra i crateri
aperti e crepitano in una giungla di polivalenti nodi ritmici e
armolodici.
Il canto “stoppa” la musica, la quale si svincola solo nel sorvegliato
agire strumentale e altresì srotola tutto il suo multiforme plico,
fiondata e come trattenuta - con un pratico ossimoro - sulla ciclicità
del ritmo transennato dal meccanicismo di Jaki Liebezeit. Questo quando
entrambi, canto e battere, non la fanno invece girare su se stessa ed è
il karma dadaista di Mushroom, un hip o trip hop ante litteram,
in cui Suzuki sembra alludere al ciclo infinito di morti e rinascite
della metempsicosi orientale (“I was born and i was dead” ripete), che
incespica e turnica continuamente su frasi salmodiate e sullo stesso
motore a scoppio tarato a sincopi. La trance atonica di Oh Yeah è
un poderoso raggiungimento collettivo in cui un mandala acid rock
intoppa in un jazz elettrico e saturnale. Dal ruolo di poderoso
incursore, il basso conquista il primo piano in venti minuti di
mefisto-funkadelia con qualche pretesa surreale, figure enzimatiche di
Karoli e fonemi protorumoristi di Irmin Schmidt: congegnato intorno al
duo Czukay/Libebezeit, metronomo e dinamometro della formazione, il
funky constrictor di Halleluwah rappresenta per i Can la scalata
del Karakorum o del K2, il superamento della dialettica solisti/gruppo
in favore di una rigenerante sintesi collettiva, riassunto delle linee
direzionali sin lì incrociate (Suzuki cantando cita i titoli dei pezzi
precedenti) a mo’ di teorema geometricamente dimostrato. L’alea polare e
mistico-esperantista di Augmn auspica invece una ventina d’anni
di musica pop e uno stock di successivi filoni: siffatti Can, in una
rivista di venti minuti che li vede bonzi tibetani, sciamani, aborigeni,
druidi e impassibili ultracorpi, si antepongono alla world music, all’ambient,
alla musica industriale, alla trance, e danno direttive generali a tutto
il post punk con una decina di anni di preavviso. L’anacoretica
glaciazione di Peking 0 adopera i primitivi tabulati elettronici
e una primordiale drum machine con i melismi shaolin di Damo in un
collage concentrazionario e post-confezionato tra un tempio scintoista,
un padiglione psichiatrico e un opificio di automi, aprendo veramente
voragini impensabili, tuttora piene di incognite affascinanti (era
futuro per i ’60, i ’70, e forse lo è ancora oggi), tanto che Bring
Me Coffe Or Tea suona, al confronto, rassicurante, quasi un ritorno
all’ordine, eppure è un brano il quale, non solo perché la nostra è
un’era di riciclo, suona ancora datato al minimo.
Una volta di più, un grande progresso di gruppo, e non dei solisti con
una base. Sapendo che tanti si sono ispirati ai Can, si capisce il
motivo. Al di là di Mushroom che trovate con il titolo di Take
Meta Mars in un album dei Flaming Lips (In A Priest Driven
Ambulance) e coverizzata a modello in Barbed Wire Kisses, la
raccolta di singoli e lati B dei Jesus And Mary Chain, le voci in retro
di Kid A dei Radiohead e di chissà quanti altri dischi si sentono
in Oh Yeah, un brano come Washer degli Slint sembra
curiosamente debitore a Paperhouse, la batteria di Halleluwah
sarà campionata dai Primal Scream su XTRMNTR (con i groove di ritorno
dai Chemical Brothers che gli stessi Primal avevano anticipato). Bobbie
Gillespie non ha mai nascosto la passione per i Can (nel booklet c’è una
sua nota) e nemmeno John Lydon: già alcune lunghezze di First Edition,
e poi il rotolio funky di molti brani di Metal Box e l’etnologia
di Flowers Of Romance dicono quanto i tedeschi possano avere
influenzato i suoi PIL. Rimanendo in Germania, Augmn l’avranno
ascoltata per certo gli Einstürzende Neubauten, e anche, perché no, il
bardo terrorista elettronico Alec Empire. Rimanendo ai due brani più
sperimentali di Tago Mago (il numero 5 e il numero 6), essi
possono far pregustare i Cabaret Voltaire, i Killing Joke, o essere
minacciosi quanto potranno esserlo i primi Swans. “La loro musica”, dice
sempre Bobbie Gillespie di Schmidt e compagni, “era qualcosa che non
avevo mai ascoltato prima, né americana né rock&roll, ma europea e
misteriosa, un vero sound dell’occulto”.
Quando nel 1994 Simon Reynolds definirà su “The Wire” la sua estetica
del post rock, e ne rinverrà i germi in una serie di artisti già oltre
rock, i Can saranno tra questi. Mai, vantando tali ipoteche, sarebbero
potuti mancare. Da qualunque parte li si giri e li si prenda, i sette
pezzi di Tago Mago, rimasti tali anche nella ristampa più per
onestà intellettuale che per tirchieria, rimangono un’esperienza
fondamentale di ascolto. Dedicato a Michael Karoli, che purtroppo da un
po’ ci è venuto a mancare.
Tommaso Iannini
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