Supersilent
album
in pagina:
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Six
-
Eight
-
Ten
-
Nine
Nati da un'idea del produttore-musicista Helge Sten aka Deathprod, i
norvegesi Supersilent spaziano dal jazz all'elettronica,
dall'avanguardia all'ambient music. Il tutto all'insegna di una rigorosa
improvvisazione. Suono (dis)organizzato dei nostri giorni, per chiunque
disponga di orecchie fresche, pronte a tutto, fino al paradosso.
In bocca
chiusa non entran mosche.
Da un certo
punto di vista, affrontare una ricostruzione monografica su Supersilent
- unità da combattimento musicale a corpo libero, di stanza in Norvegia
- è compito facile. Essa è scandita in otto capitoli, ovvero otto cd
intitolati semplicemente con una numerazione progressiva (1,
2, 3, 4, 5,
6, 7 e 8), a loro
volta suddivisi in un certo numero di tracce anch’esse battezzate alla
gloria del proprio numero cardinale (ad esempio, "3.2" è la seconda
traccia del terzo disco, "6.6" è la sesta del sesto). A voler insistere
nel gioco, va rilevato che negli ultimi quattro dischi viene rispettata
una puntigliosa progressione aritmetica: 5 ha 5 tracce,
6 ne prevede 6, 7 ne conta 7,
8, 8.
E per chi rischiasse di rimanere un po’ perplesso di fronte a questa
glaciale scansione, viene "in aiuto" la grafica. Tutti gli album hanno
copertina identica: ci sono il numero del disco e dei brani, data, luogo
e personale tecnico delle registrazioni, il tutto scritto senza
maiuscole, in caratteri senza grazie, su campitura monocroma (questa
però diversa a ogni uscita). Nessun accenno a musicisti, compositori,
strumentazione, giusto un doveroso inserimento del codice a barre, ameno
segnale lasciato a uso e consumo di futura umanità avida lettrice di
linguaggio binario.
C’è solo una cosa su cui i Supersilent si concentrano davvero: la
performance.
Il gruppo, infatti, non solo non parla della propria musica, ma nemmeno
la prepara, la scrive, la arrangia, o la sovraincide. Semplicemente la
improvvisa, liberamente, collettivamente, in studio di registrazione
così come in concerto.
E qui cominciano le complicazioni per la presente monografia. Pur non
essendo esattamente binaria, anche l'improvvisazione è un linguaggio. E
anche quando è definita "libera", si tratta comunque di un linguaggio
creato alla bisogna, ad esempio negando polemicamente le regole di
linguaggi precedenti (come il
free-jazz
degli anni 60). Nel caso dei Supersilent avviene una cosa diversa. Una
posizione di partenza relativamente defilata viene sfruttata per
costruire con cura un vero e proprio idioma personale, che non si
contrappone a nulla in particolare, e che nel momento in cui applica le
proprie regole, impegna l'ascoltatore a trovarne i riferimenti, i
confini.
Certamente, di solito, anche quando si vuol essere completamente
autarchici, l'improvvisazione è sempre "in rapporto a" qualcosa. Nella
storia della musica si contano improvvisazioni su temi di Beethoven,
improvvisazioni sul tema dei diritti razziali, improvvisazioni su una
frase di Wittgenstein. C'è insomma quasi sempre un modello, dietro gli
slanci spontanei di un
performer,
sia esso un
set
di melodie preesistenti, una poesia, un concetto filosofico. Niente: i
Supersilent negano anche questo, depurando il gesto improvvisato da ogni
esplicita contestualizzazione. "1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8" è tutto quello
che vogliono dire. Il resto lo suonano.
Qualche dato più succoso lo si può ricavare dagli aneddoti. Come ormai
da più parti si tramanda, nel 1997 tra Trondheim e Oslo, Norvegia,
esisteva un trio di musica di ricerca chiamato Veslefrekk, formato da
Ståle Storløkken (sintetizzatori), Jarle Vespetad (batteria), e Arve
Henriksen (tromba e
live electronics).
In quell’anno al Bergen Jazz Festival avviene l’incontro, direttamente
in
jam
improvvisata, con il quarto elemento, Helge "Deathprod" Sten (operatore
elettronico). E’ in quella felice
jam
che nascono, già definitivi come organico e come orientamento, i
Supersilent.
Come i giovani John e Paul degli anni 60, che giureranno di firmare
tutte le loro canzoni come
Lennon/McCartney,
o magari come
Lars Von
Trier,
che nel 1995 si divertiva a redigere il manifesto Dogma sulle tecniche
di regia, il quartetto testé formato opta per una regolamentazione di
estremo rigore. Non si parla della musica fuori dalla
performance,
non si fanno prove, non si concorda nulla a priori - e la cosa vale
anche e soprattutto quando si va a registrare. Dopodiché, non si danno
titoli ai dischi e ai brani, non ci si perde in inutili avvertenze su "chi-ha-suonato-cosa-in-quale-momento",
non si allegano messaggi di alcun tipo (politico, sociale, estetico),
insomma, smontati gli strumenti, ognuno per la sua strada.
In quanto alla pruriginosa formalità di trovare un nome al gruppo, ci si
sbriga in fretta: pare che qualcuno avesse avvistato nei dintorni di
Oslo un camion recante scritto sul rimorchio "supersilent". Benissimo.
(Cercando su internet si trovano tanti oggetti tecnologici reclamizzati
come "super-silenziosi". Tra i vari, mi permetto di segnalare una
significativa motosega. Supersilent sarà figlio di una coincidenza, ma
si può dire che quel camion sia passato proprio a proposito).
1.
La prima regola del gruppo è che non si
parla del gruppo.
Supersilent fa quindi la sua comparsa sul mercato discografico con la
pesantezza di un tir. Nel 1997,
1,
2
e
3
escono infatti in un botto solo, come triplo cd. "Avevamo sette ore di
improvvisazioni", ricorda Deathprod, "e siamo felici di averne salvate
almeno tre". E non si tratta solo di una notevole quantità, si tratta
anche di una colossale massa sonora. Non a caso il disco viene promosso
come "deathjazzambientavantrock" dalla casa discografica (onore alla
Rune Grammofon, che esordiva in quegli anni con questo disco, lontano da
qualunque appiglio commerciale). Già i tre Veslefrekk non dovevano
essere particolarmente tranquilli, ma ora con Deathprod (anche alla
produzione) e la nuova filosofia minimal-nichilsta, il gruppo ha chiari
intenti destabilizzanti. Sempre a proposito di Deathprod, che dire di
uno che nei
credits
del disco dichiara di occuparsi degli "audio virus"?
Infatti
1.1,
la prima traccia, è un bel pugno nello stomaco. Sviluppo lungo,
predilezione per strumenti sintetici, elettrificati o distorti, nessuna
pulsazione riconoscibile, violenza sonora, grande sabba audiovirale.
Mentre si riprende fiato,
1.2
introduce degli
stop & go
con un interessante suono di rullante, ma il gruppo non molla la presa e
continua a lavorare di cazzotti sonori. Con
1.3
siamo nel delirio sismico, da cui emergono inquietanti vocalizzazioni
(di Henriksen, ci torneremo su). In
1.4
ci si calma un po’, poi il disco riprende a ribollire, con l’affermarsi
della tromba, che si impossessa sgomitando di quello che potremmo
definire il primo tema dell'album.
2.
La seconda regola del gruppo è che non si
parla del gruppo.
Il secondo cd si apre proseguendo letteralmente sulle orme di
1.4
(lo stesso suono identico suono di cassa dà l'avvio allo
slow funk
di
2.1)…
ma sarebbe inutile attardarsi sui singoli brani. Difficile trovare il
preferito, il "pezzo forte", insomma aggirarsi per il triplo cd come si
farebbe per un album di canzoni.
1-2-3
è un monolite, vale a un tempo come concettualità e come esperienza. Da
una parte contiene tutta la profondità programmatica di cui sopra,
dall’altra la traduce in suono senza alcun compromesso, senza nessun
filtro o piaggeria. Come dire che l’esperienza diretta di un concetto
radicale non è possibile, andrebbe fatta per gradi, ma andando per gradi
si rischia di annacquare il concetto. E allora nessun ripensamento, si
va a corpo libero.
3.
Siamo arrivati qui perché qualcuno ha
violato le regole. Qualcuno ha parlato del gruppo.
Facciamo filtrare altri dati. I tre Veslefrekk facevano, chi più chi
meno, parte della scena del jazz colto scandinavo, scena che nei
successivi anni, parallelamente ai Supersilent, continueranno a
frequentare. Per fare un esempio, tutti e tre incidono qualcosa per la
Ecm, prestigiosa etichetta tedesca di jazz algido e meditativo. Ståle
Storløkken (poliedrico pianista con esperienze di composizione eurocolta),
per esempio, è ai synth con il chitarrista Terje Ripdal. Jarle Vespetad
è batterista ricercato, accompagna decine di artisti, tra cui Tord
Gustavsen. Arve Henriksen, che potrebbe diventare il nuovo riferimento
europeo per la tromba, veniva chiamato dal sassofonista Ian Bellamy già
nel 1999, poi incide meravigliosi dischi solisti (vivamente consigliati,
Chiaroscuro
su tutti). E’ forse virtù di questa loro area d’afferenza che ci si
ostina a volte a scrivere "jazz" nel genere di riferimento dei
Supersilent. Jazz? E cosa succede se aggiungiamo anche Deathprod, che
viene da tutt’altra parrocchia? Sperimentatore elettronico senza
compromessi, con all’attivo dischi
industrial-ambient
(Morals And Dogma),
che si era associato con successo ai
Motorpsycho
già nel 1993. Jazz? A pensarci bene, sì. Jazz. Soprattutto se si prende
l’etichetta e la si maltratta un po’ – ce lo consentiranno sicuramente i
numi tutelari del genere, che non l’hanno mai amata – per rigirarla più
come proposta sovversiva che come definizione da negozio di dischi.
4.
Il combattimento dura finché lo vogliono i
combattenti.
Ci spostiamo al 1998, un anno dopo l’esordio. Come nelle migliori
improvvisazioni, poteva succedere di tutto. Supersilent era partito
spingendo così tanto il pedale dell’estemporaneità e dell’ermetismo da
poter anche sembrare un’azione situazionista usa-e-getta. In effetti è
solo perché oggi siamo arrivati a
8
che ci possiamo sbilanciare sulla "coerenza" o sulla "profondità" del
progetto. Immaginandoselo come una puntata isolata di dieci anni fa,
1-2-3
ci sembrerebbe probabilmente il colossale incubo di quattro
freak
dai gusti selvaggi. Ma 4 reca con sé un messaggio
forte: questi simpatici casinisti scandinavi stanno in realtà portando
avanti un discorso.
In
4,
anche solo dal punto di vista produttivo, la qualità è migliore. Ma è
soprattutto sul versante artistico che il gruppo mostra di possedere
anche il prezioso dono del controllo. Nel suo complesso,
4
abbassa notevolmente i giri della motosega supersilenziosa, ma non perde
in affilatezza.
4.1
inizia con un bellissimo unisono tromba-synth (è istruttivo seguire
l’evoluzione dei due solisti Ståle e Arve nel corso dei dischi, così
diversi eppure così vicendevolmente influenzati) in un ambiente più
liquido, lievemente riverberato, dove fanno capolino anche alcuni
loop
percussivi trattati con gusto (da Deathprod).
La seconda traccia si assesta su un rovistamento minaccioso, ma mai
debordante, con Henriksen che sibila nel microfono qualcosa come "does
not separate".
4.3
esibisce un invidiabile
groove
in stile M-Base, un funk rigirato che farebbe l’invidia di Steve Coleman
(e Jarle Vespetad è un batterista stupendo proprio per la sua capacità
di svolgere un ruolo ritmico senza far distinguere un tempo preciso).
4
è un disco che offre maggiore varietà e, contemporaneamente, una
maggiore sintesi. I pezzi trovano presto il loro punto focale (un
particolare timbro, un certo ritmo, una successione melodica), che li
contraddistingue e li rende in un certo senso memorizzabili. E così, al
cospetto della maturità di
4,
certe strutture di
1-2-3,
pur nel loro fascino brutale, si rivelano verbose e fini a se stesse. La
follia c’è ancora (emerge rabbiosa in
4.6),
ma può anche cedere il passo alle atmosfere lunari (4.7),
dove il suono sembra propagarsi a stento per la mancanza d’aria. Ma,
sporchi, cattivi, eterei o pacati, quello che conta è che da ora questi
situazionisti supersilenziosi ci sono per davvero, e la numerazione è
destinata a crescere.
5.
Non si parla del gruppo perché, salvo che
per qualche ora su un palco o in una sala di incisione, il gruppo non
esiste.
2001: negli anni precedenti i Supersilent si sono manifestati sempre più
spesso in carne e ossa. Hanno suonato per l’Europa, sono venuti anche in
Italia. Ed è quindi il momento di fare un disco
live,
ovviamente si fa per dire perché da un certo punto di vista non cambia
nulla, l’approccio è fondamentalmente lo stesso (chissà come si
regoleranno con il
greatest hits!).
5
raccoglie quindi cinque momenti del tour, registrati direttamente su Dat
stereo nelle sere dei concerti, e mostra, al contrario di quello che ci
si potrebbe aspettare dalla dimensione
live,
un approccio ancora più rarefatto rispetto alle prove precedenti. Le
bordate di
1-2-3
sembrano lontanissime, e ormai il gruppo privilegia decisamente le
atmosfere sospese, tipicamente nordiche, dove il
noise,
quando si intromette, lo fa compostamente (ad esempio, alla fine di
5.1).
Le nuove ambientazioni rarefatte si dispongono a conca, attorno a vuoti
sonori che, ad esempio in "5.2", attendono di essere riempiti da
un’intenzione solistica. E infatti
5 è il disco in cui l’equilibrio
del gruppo si assesta ulteriormente, consentendo al quartetto di
suddividersi dinamicamente in solista più trio accompagnatore. In
5.3 viene per
la prima volta tessuta una sottile ragnatela di accordi di piano
elettrico, su cui si staglia una tromba distorta (fino a sembrare quasi
un synth), ma suonata con piglio meditativo. Perfino Deathprod è in vena
più musicale, e imbraccia qua e là la chitarra elettrica (suonata certo
a modo suo).
Intanto, nel 2002 i Supersilent compaiono - unico nome nordico insieme a
Björk - nel triplo box
Adventures,
che festeggia i vent'anni della rivista The Wire.
6.
La lotta è caotica eppure non si è soggetti
al caos.
Il sesto è il disco del "successo" (fatte le dovute proporzioni). Chi
scrive ha conosciuto i Supersilent proprio con
6
(avevo il cd, di cui avevo solo letto velocemente un parere su internet:
leggevo Supersilent 6
tutt’uno, e pensavo che fosse il nome di un sestetto – e l’ho continuato
a credere per diversi ascolti).
Col senno di poi, ascoltare
6
come un oggetto sonoro ignoto è una
fortuna, anche perché si tratta in fondo della modalità auspicata dal
gruppo. Nel mio caso l'effetto sorpresa veniva anche da un
incipit
male interpretato. Ascoltando i primi secondi di "6.1", decido che si
tratta di una
intro
molto lenta, con tastiere che giudico sbrigativamente "d’atmosfera", e
che mi fa perdere presto l’attenzione. Dopo pochi minuti è come se mi
rendessi conto di qualcosa che va contro le leggi fisiche: mi guardo
attorno e scopro che si tratta del cd che sta ancora girando.
Wow.
I sintetizzatori d’atmosfera si sono incazzati come non pensavo fosse
possibile. Si stanno incrociando e arrovellando come mai avrei pensato
che nessuno avesse il coraggio di fare. Forse Wagner, se avesse
trent’anni oggi! O Stockhausen. La cosa bizzarra è che lavorando con
tutto questo ammasso di tastiere, ci si avvicina pericolosamente al
prog
sinfonico, ma miracolosamente lo scivolone non avviene (siamo con Wendy
Carlos più che con
Keith
Emerson).
Ståle, qui, è sul trono di Sigfrido. Esibisce un suono di synth davvero
ricco, multistrato, con infinite sfumature e grande calore, che è bello
andare a confrontare con i dischi precedenti (in
1-2-3,
per dire, non aveva ancora un suono così). E lo articola attraverso un
fraseggio che lo rende immediatamente riconoscibile. Scale bizzarre,
atonali, di sapore novecentesco (magari la "octofonica" di Messiaen,
artista da lui molto ammirato), coordinate da un senso lirico che le
rende comunicative, seppur sempre piuttosto ansiose.
Occhi sgranati, quindi, di fronte alla tempesta di oscillatori. Che si
conclude elegantemente, per far posto all’altro lato seducente
dell’inferno. 6.2
potrebbe essere infatti una traccia di
Get Up With It
di
Miles
Davis
(ultimo disco dello stratosferico Miles anni 70), una specie di
He Loved Him Madly,
aggiornata attraverso
Jon
Hassell
e
Brian Eno.
Pulsazione regolare, ma dilatatissima e riverberata, alcuni impasti
elettrici lontani, su cui Arve Henriksen va ad arabescare un assolo di
tromba perfetto, che sfrutta espressivamente l'effetto di distorsione.
6.3
è uno dei pezzi più "narrativi", se così si può dire, con i
tom
di batteria che a intervalli irregolari squarciano il silenzio scandendo
un qualche evento ineluttabile (ognuno cerchi le proprie immagini, e
ringrazi i ragazzi che non han voluto dargli titolo). Infine
6.6
conclude degnamente il disco con una moltiplicazione di piani (in tutti
i sensi, sia di strumento musicale, sia di livello di profondità), in
cui un pianoforte campionato cede la melodia al piano vero, al quale
fanno seguito un piano preparato e un ulteriore pianoforte
"invecchiato".
7.
Nessuno conosce il piano completo, ma
ciascuno è addestrato per svolgere alla perfezione un compito preciso.
Nel 2005 arriva, puntuale,
7.
C’è la grossa novità del Dvd. L’intero disco è la riproposizione
integrale di un fortunato concerto a Oslo e, per quanto sia ovviamente
possibile ascoltarne anche solo l’audio, vale senz’altro la pena di
seguire le immagini (in un azzeccato bianco e nero, straordinariamente
sporco e disturbato). Finalmente vediamo i nostri eroi. E in
7
l’eroe è soprattutto Arve Henriksen. Il suo personalissimo suono di
tromba, tanto vicino al flauto
shakukachi
giapponese, ci accoglie già da subito nel tranquillo
bric-a-brac
iniziale di
7.1.
La sua voce mistica segue poco dopo, ed è impossibile non rimanerne
rapiti. Finalmente vediamo anche Deathprod, meraviglioso nel gestire le
sue macchine e nel tenere con la testa un ritmo che solo lui sente, ma
che comunque da qualche parte in effetti ci sarà. Assieme agli altri
gioca ad alimentare il ribollire del pezzo, fino alla chiusa, che è di
quelle che su cui ogni buon improvvisatore metterebbe la firma: secca e
coordinata.
In
7.2
il suono della tromba è al di là di ogni immaginazione, ma a voler
guardare bene si scopre che Henriksen ha montato un bocchino da sax sul
proprio strumento, con effetti inediti, inclusi i classici colpi di
labbro da sassofonista (che Deathprod prontamente coglie e riecheggia
con i propri macchinari). Dopodiché, non è ancora finita: Arve urla come
posseduto, imbraccia la tromba e suona in un registro sopracuto da
orchestrina di "Guerre Stellari", infine intona un canto dal sapore
etnico. Impossibile non rimanere sconvolti.
Al di là di tali prodezze, il disco si contraddistingue anche per una
certa propensione all’effetto corale. Al contrario di
5,
qui si sentono il calore e la tracotanza del
live.
Anche in 7.4
e 7.6 i
brani finiscono in un grande impasto corale, dominato da melodie aperte,
nordiche (con echi dei
Jaga
Jazzist)
che, pur non sempre brillando per eccezionale inventiva, trascinano il
pubblico, che applaude spellandosi le mani.
8.
Il silenzio è l’assenza di qualunque
intenzione.
2007, dieci anni di carriera, una piccola resa dei conti. 6
rappresentava l’affermazione qualitativa, una pietra miliare
nell’evoluzione del gruppo,
7
conteneva la stupefacente energia del
live,
con la preziosa testimonianza della traccia video. Cosa viene dopo tutto
ciò? Sulla carta un disco "normale", che all’inizio era stato annunciato
come doppio (doveva essere 8-9),
e che invece esce singolo.
8
ritrova i nostri di nuovo in studio, alle prese con una formula
collaudata, apparentemente senza grandi novità. "8.1" si compone come
una cupa marcia, costruita intorno a un battito cardiaco, su cui le
trame di tastiera disegnano pensose figure.
8.2 è
nuovamente contrassegnata dai synth indagatori che si aggirano intorno a
un crepitio elettronico, salvo venire sconvolta da certe improvvise
esplosioni subacquee (opera di Deathprod?).
Attraverso la nervosa 8.3
(basata su una stupenda figurazione di Vespetad, costantemente mobile
eppure agganciata a un qualche
beat
inafferrabile) ci si accorge che non si è ancora sentito suonare Arve
Henriksen. Solo in
8.4
riappare la tromba, a duettare con il synth. Ecco, si tratta di uno dei
piccoli segnali di rinnovamento: in realtà Arve c’era eccome anche nei
brani precedenti, ma da tempo sta esplorando altre timbriche, altre
interfacce, ad esempio le percussioni e l’elettronica. E’ un segnale che
si ritrova anche tra gli altri membri, e mostra la volontà di non
rimanere ancorati ai propri cliché strumentali, a costo di confrontarsi
con uno strumento non completamente dominato.
E’ una promessa ambivalente (simili idee aveva Ornette Coleman quando
transitò dal sax al violino), ma per fortuna la seconda metà del disco è
lungi dall’essere povera d’idee. Anzi,
8.5
potrebbe passare agli annali come il pezzo più composito e variegato dei
Supersilent. Inizia con la voce di Henriksen filtrata dal vocoder,
acquista dinamica con la stupenda entrata dei synth, decolla
ulteriormente con l’ingresso del
groove
asciutto di batteria, sul quale poi si costruisce un complesso arpeggio,
che si spegne nei pressi di un solo di tromba.
8.6 è più
sintetica, ma non meno azzeccata: da un iniziale dialogo tra macchine
ritmiche, che si intrecciano caoticamente, si leva il canto in falsetto
di Henriksen a comporre un quadro davvero forte. Con la litania vocale
quasi da musica sacra e il gelido rovistamento elettronico, potrebbe
anche trattarsi di una
Björk
nel fiore delle sue sperimentazioni. Attenzione poi a "8.7", la motosega
mica se la sono dimenticata nello sgabuzzino.
9.
Su ciò, di cui non si può parlare, si deve
tacere.
Come fanno? Saranno sempre così - duri e puri, intransigenti e
inclassificabili, eppure mai a corto d'inventiva? Riusciranno a stare
"al passo coi tempi"? Con un gruppo simile, la domanda è mal posta. Se,
come dice John Cage, il (super)silenzio è l’assenza di ogni intenzione,
i Supersilent, più che modificarsi razionalmente, si evolveranno
biologicamente. Più che rinnovarsi, cresceranno, come una pianta. Una
pianta che si nutre, silenziosamente, di caos e di contemporaneità.
Bisogna ricordarsi di darle da bere. Aspettiamo le nuove fioriture.
Nel successivo
Supersilent 9
(2009), però, avvengono delle inaspettate rivoluzioni. Il batterista
Jarle Vespestad lascia la band per seguire nuovi stimoli professionali.
Il disco, pertanto, è la prima fatica da trio del combo avant-jazz
venuto dal freddo. Le note di accompagnamento parlano di una formula con
sole tre sessioni alle spalle, a confermare una sorta di autismo
comunicativo, e di un’unica sessione di registrazione, in cui i tre
superstiti si sarebbero dilettati nell’armeggiare con altrettanti organi
Hammond. Ma l'album delude da tutti i punti di vista, virando verso una
sorta di pseudo-ambient, totalmente privo di personalità e mordente. I
brani sono quattro, identici e indistinguibili. L’effetto è a dir poco
straniante, tanto da far sospettare una burla minimalista.
Quali i motivi del flop? Innanzi tutto, una totale e desolante assenza
di tensione. E di contrasti: all’eccitante dicotomia tra cacofonia e
spunti melodici è stata preferita una sorta di stucchevole piattume
intermedio. Come se non bastasse, all’addio di Vespestad ha fatto
seguito una drastica spersonalizzazione strumentale.
In un paio d’anni i Supersilent si sono spogliati troppo. E troppo in
fretta. Il re vichingo è nudo: peggio di così, c’è solo la pubblicazione
di un supporto vergine.
A rimettere, in parte, le cose a posto provvede
10
(prodotto, in larga parte, da Jan Erik Kongshaug), lavoro fortemente
evocativo e introspettivo (il più introspettivo della loro ormai
ultradecennale carriera).
Prevalentemente costruito sugli intrecci di tromba (Arve Henriksen) e
grand piano (il nuovo arrivato Ståle Storløkken),
10
mostra un’anima notturna e desolata,
con quel timbro “desertico” della tromba capace di evocare un
Jon
Hassell
abbandonato a se stesso in mezzo ad una landa inaccessibile. Certo,
senza l’elemento ritmico questi Supersilent fanno ancora un po’ fatica a
reggersi in piedi (innegabile, per dire, un certo manierismo di fondo)
ma, almeno questa volta, si riesce a rintracciare della poesia,
commuovendosi qua e là.
Fatta eccezione per i quattro piccoli pannelli (tutti imbevuti di algida
costernazione) di 10.1,
10.4,
10.7
e 10.10,
il grosso dell’opera è affidata alle vespertine confabulazioni tra le
rade figure pianistiche e le nebulose tessiture della tromba. Così,
“10.3” sembra una tetra serenata, 10.6
si culla nel solco di un impressionismo puntillista, simulando
un’inclinazione rinascimentale, e 10.12
si disperde dentro le trame inquietanti del tragico. Ma è, comunque, la
bellissima
10.8
a raggiungere vette di assoluto lirismo, tratteggiando fragilissime
soglie in cui si smarriscono i limiti tra diafano esotismo e misticismo
spaurito.
L’altro versante appartiene, invece, a
soundscapes
tenebrosi, in cui dominano viscide ragnatele di synth, tra ambient
“artica” (10.2),
cupi rimbombi cosmici misti a dissonanze fantasmatiche (10.5)
e torbide ipnosi
Tangerine
Dream
(10.9).
Pochi mesi dopo, è la volta del numero
11,
per la prima in edizione esclusivamente vinilica. Trattasi di materiale
risalente al 2005 (per l’esattezza, al periodo delle registrazioni di
Supersilent 8),
quando, dunque, il batterista Jarle Vespestad era ancora della partita.
Qualitativamente parlando, il materiale qui presente non fa che
confermare un momento piuttosto confuso per i norvegesi.
Fatta eccezione per i soundscapes dilatatissimi e desolati di
11 (con la
solita tromba memore di Mr. Hassell) e l’eterea radura di
11.5, il
grosso dell’operazione è affidato a una sorta di free-funk
spastico-digitale e dell’anima astratta (11.1,
11.3 e
11.6),
anche se, alla fine, il momento più interessante è rappresentato dagli
spazialismi immaginifici e dal groove jazz-rock sghembo ma solidissimo
di 11.4.
Michele Pedrazzi
|
-
Six
(2003) Rune Grammofon rcd 2029 - cd
1. Track One - 2. Track Two - 3. Track Tree - 4. Track Four - 5. Track Five - 6. Track Six
Musicians:
Helge Sten, Stale Storlokken,
Arve Henriksen, Jarle Vespestad
Produced by Deathprod
Recorded at Athletic Sound
Engineering by Kai Andersen
Cover by Kim Hiortoy
Formatisi
ad Oslo nel 1997 da un’idea del produttore/musicista Helge Sten, in arte
Deathprod, i
Supersilent
(Stale Storlokken al sintetizzatore, Arve Henriksen alla tromba e alla
voce, Jarle Vespestad alla batteria e Sten alle parti elettroniche)
dimostrano, con il sesto lavoro, di aver raggiunto una notevole capacità
di sintesi che gli permette di spaziare dal jazz all’elettronica,
dall’avanguardia alla musica d’ambiente, mantenendo una coerenza di
fondo che conferisce credibilità e valore alla loro proposta musicale.
Ad inaugurare l’album, una lunga composizione strumentale di oltre
undici minuti in cui il sintetizzatore di Storlokken si alterna a quello
di Sten in un duello sonoro caratterizzato da repentini cambi d’umore e
climax impetuosi, che si risolve in un corroborante epilogo di rara
bellezza.
L’itinerario prosegue con la silenziosa tromba di Henriksen che,
sostenuta da una trama percussiva vagamente tribale, definisce ricerche
ambientali simili a quelle intraprese da
Jon
Hassell
durante i primi anni Ottanta. Il quartetto norvegese dimostra qui una
notevole abilità nell’estendere il proprio ambito musicale al di là dei
confini dell’elettronica. La terza traccia, probabilmente la migliore,
presenta tredici minuti di dissonanze sintetiche dominate da toni
apocalittici che, contrappuntate da flebili accenni melodici, preparano
l’ascoltatore a un finale wagneriano in cui trova sfogo la tensione
emotiva fino ad ora accumulata.
L’artwork
di "6", in linea con le precedenti produzioni, è caratterizzato dalla
totale assenza di note e riferimenti ai brani, identificati
semplicemente con numeri progressivi, per evidenziare l’impossibilità di
conciliare in un titolo le differenti personalità dei musicisti
coinvolti nella realizzazione dell’album.
Mattia Paneroni
-
Eight
(2007) Rune Grammofon rcd 2067 - cd
1. Track One - 2. Track Two - 3. Track Tree - 4. Track Four - 5. Track Five - 6. Track Six - 7. Track Seven - 8. Track Eight
Musicians:
Helge Sten, Stale Storlokken,
Arve Henriksen, Jarle Vespestad
Produced by Deathprod
Recorded at Athletic Sound
Engineering by Kai Andersen
Cover by Kim Hiortoy
E
otto. Ci risiamo. Sono tornati. L’uscita di 8, prima fatica in
studio a marchio Supersilent da un lustro a questa parte, va detto, è
stata continuamente rinviata da almeno un anno, tra voci di corridoio e
addirittura “minacce” - da parte del sito semi-ufficiale - di
paso doble,
con pubblicazione simultanea del nono capitolo. Abbastanza per
ritagliarsi un minimo di spazio nell’elenco degli eventi più attesi del
duemilasette, anno in cui ricade, neanche a farlo apposta, il decennale
della fondazione del quartetto norvegese.
Finora, sette-dischi-sette in altrettanti anni. Sette personalissime
escursioni a certificazione ISO di qualità - in barba a certe
cervellotiche teorie sul decadimento del talento e sulla dispersione
dell’estro creativo - tra jazz, elettronica, noise, avanguardia, ambient
e classica contemporanea. Niente cadute evidenti, né tantomeno doppioni,
a partire dal triplo salto mortale con avvitamento degli esordi, fino a
giungere alla prova videodocumentata dello splendido
Dvd,
uscito ormai un paio di anni fa. E adesso? Saranno riusciti, i nostri,
nel gravoso tentativo di non ripetersi? Se ci fermiamo alla mera
apparenza, no di certo.
Tatuati sulla copertina color pelle, i soliti, glacialmente candidi,
caratteri “Akzidenz”, la consueta sfilza di numeri e le scarne
informazioni su produzione, mixaggio (a cura di Helge Sten) e
masterizzazione, questa volta curata dal guru americano Bob Katz, pare
per salvaguardare un intervallo di frequenze estremamente dinamico.
Finalmente un riferimento agli artisti? Scordatevelo: “E' un lavoro
collettivo, improvvisazione di gruppo, non una questione di successo
individuale”, ci tiene a sottolineare la
press release.
Un concept? Pazzi. Cosa vi aspettate, d’altronde, da gente che non prova
mai, non è solita discutere di musica e si incontra solo ai concerti o
in studio per registrare?
E la musica? Beh, la musica è decisamente un’altra storia. Fin dal primo
tiratissimo pezzo, perfetta colonna sonora per incubi atomici
postmoderni: una linea di basso carica di tensione, corde violentate (e
già siamo in pieno clima novità), rintocchi sinistri, droni spettrali e
drumming
in controtempo si fondono in un lungo e minaccioso crescendo
strumentale, pronto a deflagrare da un momento all’altro. Alzi la mano
chi aveva sentito qualcosa del genere in un disco dei Supersilent.
Dal paesaggio di macerie radioattive e pozzanghere di brodo primordiale
elettrificato che ne consegue, timidi segnali di vita sintetica
precedono l’entrata in scena di una batteria che impara presto a muovere
i primi passi (8.2), prima di deragliare, disturbata dagli
audio virus
di Deathprod, in un’aritmia totalmente irreversibile (8.3).
Desolante, nell’accezione più letterale del termine.
La successiva 8.4, episodio relativamente breve rispetto agli
standard Supersilent, è melodicamente impeccabile, con Storløkken
(tastiere) e Henriksen (tromba) finalmente in piena evidenza. Estasi
eterea. Né più, né meno.
È la voce dello stesso trombettista, opportunamente filtrata dal
vocoder, ad aprire 8.5 (la più lunga del lotto con i suoi dodici
minuti), mentre echi
Popol Vuh
preparano la strada alla batteria di un Vespestad qui in perfetto
travestimento da
post-rocker.
Ancora plettrate e ancora tromba a farla da padrona nella seconda metà,
ma non ci si annoia neanche per sbaglio.
8.6 è puro esercizio glitch - casomai ci fosse stato il bisogno
di aggiungere altra carne al fuoco – con tanto di epilogo celestiale per
voci bianche.
Il settimo pezzo, di contro, è quanto di più violento, rumoroso e malato
mai inciso dall’ensemble
scandinavo: attacco in piena distorsione, corde martoriate, urla
rabbiose, batteria a briglie sciolte, synth fulminei e iperaffilati. Il
delirio finale è
free-speedcore
incontrollabile, con la lancetta del contagiri schizzata fuori dal
quadrante. Ma non erano solo quattro? Dalla Norvegia ci vengono
incontro, ancora una volta: “Non c’è bisogno di dirlo, non c’è alcuna
sovraincisione”. Proprio confortante.
In dissolvenza, l’ultimo brano ci regala la proverbiale bonaccia (ma
anche una melodia in stile
Supersilent 6)
dopo una copiosa grandinata di suoni.
Imperdibile per chi non stava nella pelle da almeno un anno,
utilissimo per scoprire, a ritroso, l’urgenza espressiva dei Supersilent,
risalendo gradualmente fino ai primi vagiti di una musica che sembra
figlia di partiture complesse, ma, in realtà, è totalmente improvvisata.
Indicazioni per il futuro? Pare che i seguaci possano dormire sonni più
che tranquilli: sarebbero state registrate, con profitto, ben cinque ore
di musica, ora a disposizione del nutrito archivio dell’etichetta
fondata da Rune Kristofferson. La sensazione – più che mai rafforzata da
questo ascolto - è che abbiano ancora parecchio da dire.
Il voto? Per una volta, l’abito fa il monaco.
Filippo Neri
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Ten
(2010) Rune Grammofon rcd 2102 - cd
1. Track One - 2. Track Two - 3. Track Tree - 4. Track Four - 5. Track Five - 6. Track Six - 7. Track Seven - 8. Track Eight - 9. Track Nine -
10. Track Ten - 11. Track Eleven - 12. Track Rwelve
Musicians:
Helge Sten, Stale Storlokken,
Arve Henriksen, Jarle Vespestad
Produced by Deathprod
Recorded at Athletic Sound
Engineering by Kai Andersen Jan Erik Kongshaug
Cover by Kim Hiortoy
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Nine
(2003) Rune Grammofon rcd 2029 - cd
1. Track One - 2. Track Two - 3. Track Tree - 4. Track Four
Musicians:
Helge Sten, Stale Storlokken,
Arve Henriksen, Jarle Vespestad
Produced by Deathprod
Recorded at Athletic Sound
Engineering by Kai Andersen
Cover by Kim Hiortoy
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