Hatfield and The North



album in pagina:

- Hatfield and The North
-
The Rotter's Club



collaborano in:

- V
  (AAVV)



Alla periferia settentrionale di Londra numerosi cartelli stradali indicano una grossa arteria di comunicazione, che attraverso la piccola Hatfield porta lontano, verso il nord e la Scozia... e la cosa potrebbe sembrare ben poco interessante, se proprio sotto la denominazione. Tratta da questa indicazione segnaletica, non si fossero riuniti quattro nomi importanti e lucidissimi, da anni tra i più intaccabili animatori della scena inglese. Personaggi capaci di cibarsi della propria stessa delirante chiarezza d'intenti, non intoccabili immagini imbalsamate in giacconi di cuoio: figure per cui un conto in banca, dopo anni e anni di attività, è solo illusione lontana, sogno proibito. Ma per cui la musica è realmente ricerca, sperimentazione, entusiasmo di trovare sintonie immediate e reali con chi ascolta: non certo freddo calcolo commerciale, stupida/astuta programmazione a tavolino delle emozioni dei propri simili.

Hatfield and The North significa dunque Richard Sinclair, Phil Miller, Pyp Pyle, Dave Stewart: quattro figli della prolifica e multiforme "famiglia" che dieci anni prima, nell'area di Canterbury, meditava le intuizioni esplosive dei Soft Machine, l'acida comunicativa dei Caravan, le menti ancora vergini di Mike Oldfield, di un Daevid Allen e di un Kevin Ayers.

Sinclair resta forse il più noto: tre anni con i Wild Flowers a dividere feeling e fame accanto a Hugh Hopper e Robert Wyatt, ed i quattro album incisi con il più sottovalutato e misconosciuto gruppo della nascente era pop, i Caravan. Tante piccole luminose dimostrazioni di una affascinante incapacità di conformarsi ai canoni stilistici correnti, alla fin troppo comode fughe verso lidi consacrati e revivals bluesistici o alla distruttiva/superamplificata falsa furia degli apostoli dell'hard rock... germi di strutture sonore destinate a rivelarsi solo pochi anni più tardi, nella splendida avventura dei Matching Mole. Miller e Pyle, nati musicalmente nel '68 con i Delivery, effimera formazione di blues che già vedeva agitarsi al suo interno i volti di Roy Bobbington o di Lol Coxill: Pyle vagherà per Chicken Shak ed ambiguità, prima di approdare alla folle corte dei Gong, incidere
Banana Moon e Camembert Electrique, costruire lentamente ma sicuramente una tecnica percussionistica soffice ed acuta, aperta a suggerimenti di marca jazzistica quanto ad elementi ritmici più evidentemente rock.

Miller, invece, dopo un'estate con i suoi Dyble, Coxill and The Miller Bros. si unisce ai Matching Mole di Wyatt: due dischi capaci di offrire l'essenza più autentica della musica degli anni '70, sogni troppo limpidi per poter continuare a lungo...

Ed infine Dave Stewart già tastierista degli Egg, un "eclatante virtuoso" stando al Melody Maker. Mesi di prove, concerti, jam session, poi l'interesse della Virgin Records, il contratto, l'album. Che presenta gran parte del materiale anticamente preparato per la Ottawa Company (un progetto mai realizzato che comprendeva tutti i membri degli Henry Cow, degli Egg e dei Khan di Hillage) e che è tempestivamente uscito anche sul mercato italiano, proponendo di forza gli Hatfield and The North come una delle punte di diamante del pop anglosassone. Perchè oltremanica troppe cose dormono sonni profondi, o sfuggono o si nascondono dietro una cronica impotenza di vivere la musica come una diretta espressione del proprio feeling, della propria voglia di luce e di amore: perchè è molto più semplice manipolare le sette note che soffrire ogni idea, abbandonarsi senza remore al fluire del pensiero e dell'energia.

Sono rimasti in pochi, insomma, dietro le cattedrali di cartapesta del Dio Moog e di Santo Mellotron: quello degli Hatfield and The North non è forse allo stesso tempo un grido di speranza venata di reale disperazione, un tentativo estremo di dichiarare il proprio diritto di cittadinanza, tra i più o meno pittoreschi sacerdoti dello show-jazz ed i "pazzi" venduti proprio come tali, sodomizzati anche nell'arroganza e nell'ultimo rifiuto? Guardate i loro volti, ascoltate la loro musica: una mancanza di spettacolarità assoluta. Ciò che ogni frammento, respiro del suono, vuole portare alla luce non è mai definito ed evidente, canalizzabile in uno schema: ogni contorno appare sfumato, ogni colore sfugge dolcemente, si frantuma e si ricompone in punta di piedi.

Solo il nome dei Matching Mole, forse quello dei primi Caravan, possono offrire validi termini di raffronto: ma più di certe sottili suggestioni timbriche - la chitarra distorta di Miller, l'organo soffocato ma potente - che per affinità maggiormente consistenti. Robert Wyatt fa capolino, è vero, in qualche solco miracolosamente impregnato della sua voce indimenticabile: ma altre intuizioni affiorano e sorridono, da un vago ma sempre presente gusto dell'improvvisazione e tonalità di sapore zappiano. Ma ogni elemento appare coordinato, essenziale, utile: ed i quindici titoli elencati sulla copertina rappresentano solo un patetico tentativo di guadagnare qualche rovalty in più, non certo il reale ritmo del suono. Che si succede senza soluzione di continuità, con una delicatezza che solo a tratti lascia posto a brevi esplosioni di energia e di vitalità - o forse solo di rabbia compressa per anni e sempre ingoiata a forza - un'occhiata a Zappa ed una ai Soft Machine, veloci illusioni che appaiono e scompaiono a misura d'istante.

Musica per la mente ma anche per il corpo, per riprendere un'antica formulazione di questo opprimente e fasullo dualismo. Ma con qualcosa in più: un eccellente gusto per la melodia costantemente vivo. Melodia non più come sinonimo di costruzioni sonore scontate ed intrise di conformismo codino, ma come tensione verso un calore nuovo, una semplicità descrittiva che appartiene certo più al bagaglio culturale dei popoli mediterranei che a quelli nordici. Emozioni fragili e mai drammatiche, non flash amfetaminici di bronza di birra/pestaggio nello slum, ed anche per questo in terra d'Inghilterra i Black Sabbath raccolgono milioni come margherite, trionfi di alluminioper ogni watt in più...

Gli Hatfield and The North sono solo un invito di buone vibrazioni, d'accordo, non un tentativo altisonante di far evolvere la nostra musica verso terre ancora più vergini ed infuocate. Ma la strada è già alettante e verde e piena di miracoli da scoprire, in ogni pulsazione e contorsionismo: e la pregnanza, l'influenza che questa proposta avrà un futuro su tutta la scena non si può neppure dedurre unicamente dalle pur alettanti capacità dei singoli, nè dal sempre crescente interesse che Robert Wyatt dimostra verso la formazione.

Marco Fumagalli

- Hatfield and The North
(1973) Virgin Records CDV 2008 - cd

1. The Stubbs Effect - 2. Big Jobs - 3. Going Up To People And Tinkling - 4. Calyx - 5. Son Of "There's No Place Like Homerton" - 6. Aigrette - 7. Rifferama - 8. Fol De Rol - 9. Shaving Is Boring - 10. Licks For The Ladies - 11. Bossa Nochange - 12. Big Jobs II - 13. Lobster In Cleavage Probe - 14. Gigantic Land Crabs In Earth Take Over Bid - 15. The Other Stubbs Effect - 16. Let's Eat - 17. Fitter Stoke Has A Bath

Musicians:
Phil Miller, Pip Pyle, Richard Sinclair, Dave Stewart, Geoff Leight, Robert Wyatt, Jeremy Baines
The Northette:
Amanda Parsons, Barbara Gaskin, Ann Rosenthal

Recorded at Manor Studios on 1973
Engineering by Ton Newman and the Hatfield
Cover photo by Laurie Lewis

Se certe espressioni non fossero del tutto fuori luogo quando si parla di Canterbury, gli Hatfield and The North potrebbero venire definiti come un supergruppo.
Il bassista e cantante è l'ex Caravan Richard Sinclair: una bella voce calda ed un timbro strumentale potente e preciso. Il chitarrista è Phil Miller, già nei Matching Mole di Robert Wyatt, sperimentatore innamorato del jazz. Il tastierista è Dave Stewart, già con gli Egg, virtuoso sulla scia di Mike Ratledge ma dal tocco più etereo. Il batterista e fondatore del gruppo è Pip Pyle, già nei Gong di Daevid Allen, un geniaccio dello strumento.
Nel 1973 approfittando della lungimiranza di una Virgin Records che all'epoca lasciava ancora spazio ai tentativi, i quattro riescono a far uscire l'album omonimo, ed è subito tonfo.
Bisogna capire che, di fronte a proposte sonore come quelle degli Hatifield and The North, vera musica per il corpo e per la mente, il pubblico britannico era sordo: troppi T. Rex, Osmonds e Glitter avevano foderato le orecchie di prosciutto ad una nazione.
Malgrado il vasto insuccesso della proposta, la Virgin accorda un'altra possibilità, e nel 1974 esce
The Rotter's Club ovvero "il club dei disperati", un titolo già illuminante in sè sulle sorti del gruppo, che infatti poco dopo si estinguerà.
Il primo album di Sinclair, Stewart e soci era stato accusato di scarsa coesione e forse era nache vero, dato che non si trattava di nababbi che potessero limare le loro idee in costosi studi di registrazione per mesi. Tuttavia, riascoltandolo oggi, questa varietà sembra proprio il suo pregio maggiore.
La fertilissima vena melodica di Richard Sinclair, che produce una splendia
Bossa Nochange ed un'area Aigrette, si confronta con il temperamento più aperto ai rischi di Miller e Stewart, che inseguono Zappa, Riley e venature classiche, tutto insieme.
Fol De Rol e Calyx, quest'ultima con l'ospite d'onore Robert Wyatt al canto, sono punti di equilibrio perfetti, che in un ascolto filato dell'album fungono da oasi, da isole di quiete in mezzo ad un flusso di idee che pare innarestabile.
Forse un peccatuccio sulla coscienza ce l'avevano anche i quattro "poveri ma belli" Hatfield and The North, ed era quello di compiacersi un po' troppo della loro diversità, in un mondo che inseguiva altri idoli più rumorosi e luccicanti.
La Canterbury e l'Inghilterra del 1973 non erano più quelle tutto sommato tolleranti e curiose del 1967-68, come i Pink Floyd non erano più i principi "dell'underground" ma le star un po' saporifere di
Whish You Were Here.
Pesciolini coloratissimi costretti a nuotare in un dito d'acqua, gli Hatfield and The North sconteranno il loro essere prima di tutto musicisti con la dura indifferenza dei più.
Michele Paparelle da Buscadero n° 179 aprile 1997

- The Rotter's Club
(1975) Virgin Records CDV2030 - cd

1. Share It (R. Sinclair) - 2. Lounging There Trying (P. Miller) - 3. (Big) John Wayne Socks Psychology On The Jaw (D. Stewart) - 4. Chaos At The Greasy Spoon (R. Sinclair/P. Pyle) - 5. The Yes No Interlude (P. Pyle) - 6. Fitter Stoke Has A Bath (P. Pyle) - 7. Didn't Matter Anyway (R. Sinclair) - 8. Underdub (P. Miller) - 9. Mumps (D. Stewart)
a. Your Majesty Is Like A Cream Donut
b. Lumps
c. Prenut
d. Your Majesty Is Like A Cream Donut II°
10.
(Big) John Wayne Socks Psychology On The Jaw (D. Stewart) - 11. Chaos At The Greasy Spoon (R. Sinclair/P. Pyle) - 12. Halfway Between Heaven And Earth (R. Sinclair) - 13. Oh, Len's Nature! (P. Miller) - 14. Lying And Gracing (P. Miller)

Musicians:
Phil Miller, Pip Pyle, Richard Sinclair, Dave Stewart, Jimmy Hasting, Mont Campell, Lindsay Cooper, Tim Hodgkinson, Barbara Gaskin, Amanda Parson, Ann Rosenthal

Produced by The Hatfield
Recorded and mixed on Saturn, Worthing Recording Studio, January and February 1975
Cover by Laurie Lewis


Cose splendide possono accadere quando tutto sta per finire. Così l'album che riassume il modo d'essere di certa musica inglese "colta e sensibile" arriva quando la rabbia punk sta per esplodere e mentre la Gran Bretagna vive una cupa stagione di scontro sociale.
The Rotter's Club è il secondo album di Hatfield and The North, quartetto formato da belle menti creative di Canterbury quali Richard Sinclair (Caravan), Pip Pyle (Gong), Dave Stewart (Eeg) e Phil Miller (Matching Mole).
Suoni fluidi, dilatati, mai ovvi dal punto di vista ritmico o armonico e con sommessi inserti melodici (
Fitter Stoke Has A Bath, Didn't Matter Anyway) condotti dalla voce intangibile di Sinclair e sottolineati dai cori delle Northettes. L'impressione è quella di una dotta e amabile conversazione davanti a un camino mentre fuori sta per scatenarsi il finimondo. Ci si sente rassicurati, ma è fin troppo chiaro che l'equilibrio è precario. Forse per questo Jonathan Coe ha scelto di intitolare The Rotter's Club (in italiano la "La Banda dei Brocchi) il suo più recente romanzo, che racconta gli anni '70 britannici e quanto arduo fosse crescere e amare in quel momento di difficoltà e cambiamento. Gli adolescenti raccontati dallo scrittore di Bormingham cercano di vivere un privato troppo spesso brutalizzato dagli eventi esterni e proprio un concerto di Hatfield and The North e una copia di The Rotter's
Club forniscono lo spunto per due dei momenti più intensi del romanzo. Perchè, scive Coe, "la musica si fa sempre capire".
In realtà, nel 1975 la musica era diventata intricata e presuntuosa e, come via d'uscita da tanta complicazione, Hatfield and The North avevano scelto levità e malinconica ironia. Probabilmente intuivano di essere gli ultimi protagonisti di una stagione sonora che, attraverso Soft Machine, Keith Tippett, Caravan e Wyatt, aveva lambito il progressive, il jazz e il pop restandone sempre un passo discosta. La luce del crepuscolo non abbaglia, non riscalda neppure tanto, però permette di tenere gli occhi aperti.
Antonio Vivaldi da Musiche di Repubblica n° 348 - 7 novembre 2002