Velvet Underground
album
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Featuring
Nico
Era
stato un costante gioco al massacro. Fin dall'inizio.
Toccò prima a Warhol allontanarsi, fu quindi la volta di
Nico, John Cale e infine Lou, il magico Lou. Man mano che
si approssimavano al successo, via via che
l'irregolarità faceva posto all'accettabilità, i Velvet
consumarono questo inesorabile stillicidio, ogni volta
mutilando un pezzo di se stessi. Durante quell'estate di
sedici anni fa erano coccolati dal business discografico
(da poco li aveva scritturati la potentissima Atlantic),
s'eran riconcigliati con la "loro" New York
tornandovi a suonare dopo tre anni di assenza, stavano
per produrre il microsolco più commerciale della propria
carriera, perfino il New York Time tesseva le lodi di
quel gruppo in odor di redenzione. Si trattò di una
conclusione logica: i Velvet Underground avevano
manifestato costantemente un temperamento pioneristico,
dimostrarono di essere costituzionalmente destinati al
riconoscimento postumo, ragionando e creando con almeno
un decennio di anticipo sui tempi della storia.
Un genio profondo e nascosto. Eppure, oggi lo si può
sostenere sapendo d'incontrare il consenso di larga parte
dell'opinione critica diffusa, sono stati la più
importante banda del rock moderno. Anzi, potremmo
azzardarci nell'affermare che il rock moderno è
incominciato con loro. Seppero infatti far evolvere
l'impulso primitivo ed essenziale, lo rosero cosciente
del suo stesso potenziale artistico, o come altri han
già scritto: "Portarono l'arte dentro il
rock". Al pari dell'unico altro gruppo americano a
loro lontanamente paragonabili (i Doors), i Velvet
Underground furono musicisti in gran parte in grado di
agire da intelettuali nei confronti del rock, senza
subirne quindi i luoghi comuni e le categorizzazioni.
C'era stato Presley, il beat inglese stava conoscendo la
sua stagione più lucida, ma fino a quel punto (nel senso
di spessore e profondità) il rock'n 'roll non
rappresentava molto più di un fenomeno di costume, poca
cosa quindi. C'erano però già regole, piccoli decaloghi
corportamentali da rispettare per raggiungere il
successo; i Velvet spezzarono quell'ordine in via di
costituzione, introdussero il concetto di illegalità
creativa, maturato dall'arte durante questo secolo, nel
corpo giovane e ancora inconsapevole di quella musica
nata per far muovere il bacino.
Furono ardimentosi esploratori di territori altrimenti
inesplicabili, scelsero di diventar tali poichè
intuirono che il caos, l'irregolarità stilistica e
comportamentale erano fonte di ispirazione almeno quanto
l'ordine, l'applicazione di schemi conosciuti. Ciò
avvenne perchè inizialmente i Velvet rappresentarono uno
di quei rari casi d'associazione artistica nei quali
l'insieme vale più della semplice somma delle sue
singole parti, capace quindi di ospitare una fruttifera
dialettica fra i diversi caratteri creativi presenti al
suo interno, magnificando le diversità anzichè
appiattirle.
Ricordiamo: Lou Reed, John Cale, Andy Warhol. Il primo
incarnava lo spirito instintivo del rock'n'roll,
possedeva la naturalezza compositiva e l'ispirazione
ritmica "biologicamente" necessarie. Spettò
invece a John Cale il ruolo di allargatore della
coscienza, ed egli lo occupò, finchè potè, con
impassibile autorevolezza, guidando il gruppo nelle
divagazioni più deliranti con destrezza che gli veniva
dalla sua lunga milizia nelle zone più impervie e
rischiose dell'arte musicale. Andy Warhol, semplicemente,
li allevò alla sua scuola di provocazione/estetica,
diede loro identità e sicurezza dei propri mezzi
espressivi; la sua credibilità nei circoli colti offrì
ai Velvet la reputazione da cui il gruppo trasse lo
slancio iniziale. I risultati di quel breve e febbrile
consorzio furono stupefacenti: l'Exploding Plastic
Inevitable Show, che traversò l'America, sconvolgendola
a cavallo tra il '66 e il '67, è ancor oggi
considerabile tra gli esempi più lapidari d'arte totale
mai messi in scena. Il primo prodotto discografico dei
Velvet (l'album con la banana) fu anch'esso scorcentante
e irripetibile, il disco perfetto, quello senza il quale
la musica del ventennio successivo avrebbe senz'altro
compiuto un percorso differente. Nulla di ciò che venne
allora ideato e realizzato è mai realmente passato di
moda. Pur occupandocene retrospettivamente, ci accorgiamo
che riflettere sui Velvet significa curarsi del presente.
Il 1970, si è accennato, fu l'anno del ritorno a New
York, culminato nel tour de force con cui venne
inaugurato il Max's Kansas City: nove settimane e mezzo
di perverse tenerezze sonore, durante le quali Reed e gli
altri trovarono anche il tempo per confezionare in studio
il loro quarto album. Ma il gruppo già era come se non
esistesse più, tanto in termini di relazioni umane
quanto sul piano della collaborazione artistica. Dopo il
concerto del 23 agosto (per la cui registrazione
rudimentalmente incisa su un apparecchio monofonico
l'Atlantic pagò la bellezza di diecimila dollari), a cui
assistettero tra gli altri Debbie Harry, che al Max's
lavorava allora come cameriera, e Jim Carroll, Lou Reed
non si fece mai più vedere. Era tornato a casa dai suoi,
a Long Island, per smaltire quei cinque anni di ebbrezza.
Loaded uscì solo qualche
settimana più tardi, "mixato" all'insaputa
dell'ombroso Lou, guadagnando al gruppo quei consensi
istituzionali che prima gli erano mancati (conteneva pur
sempre classici del calibro di Rock'n'roll, Sweet Jane, New Age).
Sterling Morrison provò, addirittura, a proseguire la
leggenda accompagnandosi ai fratelli Yule (Doug e Billy)
e a un nuovo bassista (Walter Powers), ma ben presto
pensò che era meglio terminare gli studi e mettersi a
insegnare (esattamente letteratura inglese
all'Università di Austin). Paradossalmente, come in una
lunga e irragionevole agonia, il nome rimase appiccicato
a quel relitto, che senza alcun membro dell'equipaggio
originario proseguì la sua tormentata navigazione per
altri due anni ancora, producendo un mediocrissimo disco
(Squeeze) e, ironia della sorte,
compiendo il primo tour europeo, prima di affondare
definitivamente nel 1972.
Lou Reed frattanto aveva inaugurato la propria carriera
solista rimasticando materiale inedito del gruppo,
Maureen Tucker aveva dato alla luce il primo dei suoi
cinque figli, John Cale collaborava con Terry Riley e
Nico, della quale produsse i primi lavori solisti.
Potremmo considerare questo 1986 come fosse il ventennale
dei Velvet Underground poichè fu nel '66 che accaddero
gli avvenimenti determinanti: iniziò la collaborazione
con Warhol, si esibirono oltre i confini dei quartieri
meridionali di Manhattan, registrarono il primo album
proprio durante quella primavera. E' un ventennale un po'
arzicoccolato, se volete, ma per certi versi reso
legittimo dalla recente edizione del voluminoso cofanetto
che raccolgie l'opera omnia di questi anti-eroi
sotterranei (praticamente tutto ciò che venne registrato
fra il '66 e il '69). Sforziamoci di rammentare
quell'epoca così gloriosa per il rock, quando Beatles e
Rolling Stones rivaleggiavano, Dylan cantava protestando
(o protestava cantando, come vi suona meglio), sulla
costa occidentale si fantasticavano utopie a base di
fiori, amore e pace. Stava montando l'onda
intercontinentale di un entusiasmo collettivo che solo
gli anni '70 avrebbero visto rifluire, e i Velvet, con
incosciente anticonformismo, vollero immaginarsi la crisi
successiva con anticipo, esserne i profeti, intuirne
segni e comportamenti indagando su quel sarebbe venuto
dopo. Fu così che Reed e la sua banda misero a punto i
meccanismi di quello scarto generazionale (che vuol dire
cambiamenti di stile, attitudini, coscienza, forme
d'espressione, malesseri, allucinazioni) completandosi
nella seconda metà degli anni '70. Quando in Heroin vien cantato: "Ho
preso una grande decisione/ annullerò la mia vita",
si riassume la natura stessa dei nuovi problemi (e non
solo delle nuove regole estetiche) che stavano allora
appena maturando. In questo senso i Velvet Underground
rappresentarono l'alter-ego necessario all'utopismo della
West Coast, che beatamente "sballata" correva
come un esercito di lemmings verso il baratro.
All'ideologia generica del Love & Peace opposero il
proprio individualismo esasperato, la logica cinica del
realismo che consentiva (e altrimenti non era possibile)
di individuare soggetti sociali inediti e futuribili. I
Velvet furono i primi poeti di quella nebulosa della
marginalità urbana di cui solo oggi, a vent'anni di
distanza, il mondo pare essersi definitivamente accorto.
Lo scorcio violento di uno scenario allora insospettabile
offerto in I'm
Waiting For The Man, apre un varco in quel
macrocosmo scarsamente penetrabile che il solo Burroughs,
e nemmeno molti anni prima, s'era dimostrato disposto a
conoscere e capire.
Lou Reed non fece ideologia su quella geografia
dell'irregolarità sociale, si limitò a ritrarne
poeticamente, narrativamente, la condizione esistenziale.
E' questa la ragione per cui i Velvet Underground
divennero il primo autentico gruppo capace di suonare
rock metropolitano, l'unico in grado di percepire i
contorni di questa nuova fisionomia della moderna vita
collettiva.
1966, allora. A gennaio i Velvet incominciarono a
frequentare il quartiere generale di Warhol, la Factory
(prototipo di avvenieristico laboratorio creativo), dove
provarono con i nuovi amplificatori che lo stesso
platinato Andy aveva acquistato per l'occasione.
Al quartetto Warhol volle affiancare Nico, ventitrenne,
"chanteuse" appena giunta dall'Europa in
compagnia di Brian Jones, reduce da una particina ne La
Dolce Vita di Fellini, interprete di un 45 giri
registrato nella "swinging London" e celebre
per alcuni suoi celebri flirt (Alain Delon, Bob Dylan nel
suo carnet mondano). Warhol intese addolcire (o perlomeno
contrastare) con la presenza elegante ed eterea di Nico
la negatività visiva dei Velvet, così come il super-8 A
Symphony Of Sound girato a gennaio dentro la Factory
volle dimostrare. Senza grande entusiasmo i quattro
accolsero la "Donna Fatale" e scrissero per lei
alcune canzoni (I'll Be Your Mirror, All Tomorrow's
Parties e, giustappunto Femme Fatale), allestendo così il
materiale necessario per partecipare al primo progetto
multimediale (quel termine sinistro arriva proprio da
qui) ideato da Warhol: Uptight. L'esordio avviene a
febbraio, nella sala del Cinematheque, il covo dei
"film-makers" newyorkesi d'avanguardia; per una
settimana intera Uptight tiene banco con la sua
apocalittica sovrapposizione di film (Warhol e Paul
Morissey gli autori), danzatori (gerard malanga e la
piccola star sotterranea di allora, Edie Sedgwick,
destinata a scomparire tragicamente cinque anni dopo),
musica (i Velvet e Nico, ovviamente).
E' l'epoca questa, di massima produttività creativa del
cosidetto Downtown di Manhattan, quella zona d'arte
disposta logisticamente nel settore più
"cheap" dell'Isola di Hudson; non passano
alcune settimane che già Warhol ha pronto il progetto
d'un nuovo spettacolo d'arte varia, ispirato come il
precedente alle teorie sui "media" testè
elaborate da Marshall McLuhan. E' finalmente il tempo
dell'inevitabile esplosione plastica. L'evoluzione
rispetto Uptight comporta l'allargamento del cast (in
tutto, tra Velvet, ballerini e tecnici, agiscono
dodici/quindici personaggi), la proiezione delle
pellicole non sullo schermo bensì addosso al gruppo che
suona, l'adozione di un light-show complesso che per la
prima volta sperimenta gli effetti delle luci
stroboscopiche, che possono venir manovrate da chiunque
si trovi nella sala in quel momento.
The Exploding Plastic Inevitable Show esordisce in
primavera al DOM Theatre di St. Mark Place. Le
accoglienze, naturalmente, variano dallo stupore
all'indignazione, ma dello Show si parla ed è quel che
conta. A maggio il pittoresco carrozzone parte alla volta
della California, dove si esibirà a Los Angeles (al
Trip, tra gli spettatori Jim Morrisnon e alcuni Byrds) e
a San Francisco (nel celeberrimo Filmore East, in
compagnia di Mothers Of Invention e Jefferson Airplaine):
sconcerto è la parola d'ordine, nessuno si sarebbe mai
immaginato cose del genere (abiti di pelle nera, occhiali
scuri, spalle rivolte al pubblico, siringhe e fruste sul
palco). Nella settimana di pausa che divise gli
spettacoli a L.A da quelli di Frisco, i Velvet trovarono
il modo, negli studi TT&G di Sunset Boulevard, di
mettere su nastro le canzoni del loro primo album,
spendendo così i quattrini guadagnati in quei primi mesi
insieme a quelli che Warhol aveva deciso di investire
nell'operazione, agendo come produttore in senso
cinematografico piuttosto che musicale. Il gran chiasso
che intorno all'E.P.I viene fatto riguardava
principalmente Warhol, indiscusso regista
dell'operazione, ma naturalmente anche i Velvet
beneficiarono delle numerose date che via via
s'aggiunsero al calendario della tournèe, che dopo la
West Coast li condusse nelle città di del Midwest, lungo
la costa orientale e infine in Canada.
Nel corso del tragitto si unirono occasionalmente allo
show Salvator Dalì e Allen Ginsberg, ma verso la fine lo
spettacolo iniziò a perdere colpi: c'erano forti
dissapori personali tra i membri della troupe, Reed aveva
contratto l'epatite virale, lo stesso Warhol era tornato
a New York a cospirare nuove avventure; anche se l'ultimo
allestimento dello Show sarebbe avvenuto nella primavera
dell'anno successivo, le risorse migliori erano già
state spese durante quei frenetici mesi nei quali droga,
sesso e arte si erano combinati armonicamente per un
periodo che non poteva essere altro che brevissimo. Si
condensarono in quelle settimane i vertiginosi impulsi
generatisi con l'osmosi impossibile dell'aristocrazia
intelettuale di Manhattan (la cosidetta Cafè Society,
miscuglio di pop-art, moda e patriziato) e il popolo
diseredato di Times Square: "junkies",
omosessuali, prostitute, travestiti, gli interpreti,
insomma, del sogno creativo di Warhol, Burroughs e Reed.
Le feste innumerevoli al 131 della 47°, occasioni nei
quali tutto (e davvero tutto) era possibile, seppero
elevarsi a eventi artistici, dei quali All Tomorrow's
Parties resta l'inno languido e incancellabile.
Dissoluzione come catarsi: un segreto pericoloso.
E' Gerard Malanga, ballerino e luogotenente di Warhol, a
raccontare il suo primo rendez-vous con il "Velluto
Sotterraneo. Warhol, persuaso da Malanga, sarebbe
arrivato qualche sera dopo con la sua corte al seguito e
li avrebbe immediatamente invitati a suonare nella
Factory. Erano quelli gli ultimi giorni del 1965, l'anno
in cui i Velvet nacquero da un punto di vista anagrafico.
Reed e Cale si erano conosciuti casualmente durante un
party dodici mesi prima, quando già Lou aveva un gruppo
con cui suonare. A dire il vero, il signor Reed aveva
incominciato fin da giovanissimo a maltrattare chitarre,
rifiutandosi invece di seguire le lezioni di pianoforte
alle quali i suoi genitori (una buona famiglia
middle-class di Long Island) l'avevano avviato fin da
bambino. Addirittura, con la sua banda studentesca (gli
Shades), era riuscito, appena quindicenne, a pubblicare
nell'ambito scolastico un 45 giri. Furono però
evidentemente altre le ragioni che spinsero i suoi
affettuosi genitori a preoccuparsi della sua salite
mentale, facendolo sottoporre diciottenne a un
trattamento d'elettroschock, dal quale il giovane Lou
uscì un po' stordito, ma ancor più convinto delle sue
ragioni. Si iscrisse quindi all'Università di Syracuse
per diplomarsi in letteratura inglese, sebbene
trascorresse il suo tempo principalmente suonando la
Stratocaster nel dormitorio del college e trasmettendo
nella locale stazione radiofonica, dalla quale venne
però prematuramente cacciato a causa di un suo commento
umoristico a proposito di una festa di beneficienza a
favore dei malati di distrofia muscolare. Suo compagno di
avventure, musicali e no, divenne ben presto Sterling
Morrison, anch'egli quasi ventenne (siamo all'inizio
degli anni '60) chitarrista e originario di Long Island.
Misero insieme numerose formazioni di rhythm'n blues,
scegliendo ogni volta denominazioni inverosimili (la
migliore: Pasha & The Prophets) e guadagnandosi
solamente una pessima reputazione. Arenatosi il piano di
studio (l'unico corso che frequentava era quello di
scrittura creativa tenuto dal "maledetto"
Delmore Schwarz, poeta visionario e influentissimo
ispiratore del Lou letterario, scomparso nel luglio del
'66 per abuso di alcool e pasticche) e complicatasi la
sua vita privata (era sotto tiro dei poliziotti, che
sapevano dei piccoli "traffici"), Lou Reed
scelse di abbandonare l'università tentando di mettere a
frutto il suo talento musicale. Si mise a lavorare per la
Pickwick, l'etichetta di Coney Island per la quale
iniziò nel 1963 a scrivere canzoni su commissione. Fu
proprio durante un parti organizzato dalla casa
discografica che Reed incontrò John Cale e Tony Conrad,
capitati lì per caso.
John Cale era negli Stati Uniti da circa un anno,
essendovi giunto grazie ad una borsa di studio che doveva
consertirgli di frequentare il corso di musica moderna al
College di Tanglewood (vicino a Boston) diretto da
Leonard Bernstein. Nato nel 1940 in Galles, Cale era
stato una specie d'enfant prodige e i suoi studi musicali
l'avevano fatto diventare una delle migliori giovani
speranze della musica colta britannica. Una volta giunto
sull'altra sponda dell'Atlantico, Cale esasperò tutta
via la sua passione per le forme più radicali
d'espressione creativa (conobbe John Cage, che lo fece
partecipare alla celebre maratona pianistica durata oltre
18 ore, al Pocker Theatre nel settembre del '63) e
rapidamente capì che la vita di college non faceva al
caso suo. Il passo seguente lo vide al fianco di LaMonte
Young, autentico guru dell'avanguardia newyorkese, con il
quale diede vita all'esperimento chiamato Dream
Syndicate, in cui l'ardore mistico era sposato alla
scienza musicale e Cale provava per la prima volta a
modulare i suoni della sua viola amplificandoli
elettricamente. Fu durante quel periodo della sua vita
che John Cale si imbattè in Lou Reed, accettando di
partecipare, con l'altro Drean Syndacate Tony Conrad,
all'incisione del singolo The Ostrich sotto il nome di
Primitives. Quel 45 giri non ebbe che uno scarso
successo, ma fu l'inizio di quel rapporto di amore/odio
che contraddistinse la loro partnership: Reed era
impressionato dal background musicale colto di Cale, il
quale viceversa fu colpito dalla vena poetica dell'altro.
E' il 1964 già inoltrato quando Lou Reed si sposta al 56
di Ludlow Street, nel precario condominio in cui vivono
Cale e Conrad; il caso vuole che qualche settimana dopo,
in una stazione della metropolitana, Lou si imbatte in
Sterling Morrison, che non vedeva da un anno, e gli
raccontò delle sue nuove amicizie musicali. E' a questo
punto, quando cioè Morrison lascia l'università per
unirsi a Cale e Reed, che nascono i Velvet Underground.
Occorrerà ancora del tempo prima che il nome diventi
quello (si chiamano All Night Workers, Warlocks, Falling
Spikes), ma il gioco è fatto: percussionista del gruppo
che prova in quell'alloggio non riscaldato della Lower
East Side diventa un pittoresco vicino di casa, Angus
McLise, inveterato "freak" che svolgerà
l'importante compito di introdurre la banda nei circuiti
della cinematografia newyorkese sotterranea.
Le prime incisioni di quel quartetto (Tony Conrad si era
frattanto defilato) furono proprio alcune improvvisate
"suite" destinate al commento sonoro dei
super-8 di tendenza proiettati al Cinematheque, tra gli
altri collaborarono anche con l'illustre Kenneth Anger.
Mentre il nome muta in Underground, è l'estate del '65,
il quartetto registra il suo primo demo-tape (Venus In Furs, Heroin, Black Angel's Death
Song
i brani prescelti), poco prima cioè che Tony Conrad
suggerisca loro di trasformare il nome in Velvet
Underground, similmente al titolo di un saggio di Michael
Leigh sul sado-masochismo (fruste e stivali sulla
copertina) addocchiato, come leggenda narra, tra le
bancarelle di Times Square.
E' il cronista di rock Al Aronowitz a offrir loro,
sentito il nastro, la prima chance pubblica, proponendo
una data in un college del New Jersey per 75 dollari. I
Velvet accettano, nonostante l'opposizione di Angus
McLise, che sfodera la propria intransigenza abbandonando
il gruppo e sostenendo che per quattrini lui non suonerà
mai (destinazione Oriente: McLise morirà di stenti in
Nepal nel '79).
Mancano poche settimane al fatidico 11 novembre, data del
debutto, e ai Velvet manca il batterista. L'emergenza
vien risolta ingaggiando la sorella di un amico di
Morrison, Maureen Tucker, ragazzina ventenne
dall'enigmatica fisionomia androgina. Mezz'ora scarsa di
suono violentissimo e perversa poesia son quello che i
Velvet riversano sull'ignaro pubblico studentesco di
quell'esordio, guadagnandosi immediatamente una
reputazione temibile, sulla base della quale Aronowitz
offre loro una nuova opportunità: una settimana intera
di concerti al Cafè Bizarre di Greenwich Village. E' qui
che l'avventura inizierà, come è stato specificato,
poichè la violenza estetica del quartetto non mancherà
di passare inosservata.
Immaginarseli: occhiali neri, pelle nera, eroina, veneri
in pelliccia, contegno provocatorio; John fa stridere la
sua viola elettrica, Lou canta con quell'indisponente
tono nasale, Maureen percuote tamburi rudimentali stando
in piedi. Era il 1965: una visione del futuro...
Tra il maggio del '66, quando venne cioè registrato il
primo album, e il marzo del '67 che lo vide finalmente
uscire, il nastro contenente quelle undici micidiali
canzoni rifiutato prima dalla Atlantic e quindi
dall'Elektra. Fu Tom Wilson, il discografico di colore
che lavorò con Dylan ai tempi della Columbia, a suggerir
loro di temporeggiare fin tanto che la MGM non avesse
aperto l'etichetta di tendenza Verve, per la quale oltre
ai Velvet vennero arruolati Richie Havens e la Mothers Of
Invention di Frank Zappa.
Naturalmente l'album della banana era davvero troppo per
l'epoca in cui uscì, tant'è vero che solo alcune radio
della costa occidentale presero a trasmetterlo, mentre
proprio New York lo ignorò con foga censoria. I Velvet
decisero allora di "punire" la loro città: non
vi suonarono più di tre anni (l'ultima esibizione restò
quella della primavera del '67, anche occasione di
commiato per la surreale parata dell'Exploding Plastic
Inevitable), limitandosi a comparire occasionalmente in
occasioni eccentriche (un convegno di psichiatria, la
festa di matrimonio dell'armatore greco Stavros
Niarchos). Suonavano spesso, invece, a Boston, che
musicalmente divenne per loro una specie di seconda
patria; fu proprio al termine di un concerto nella
capitale del Massachussetts che si compì definitivamente
il rigetto di Nico da parte di Lou e John, i quali
naturalmente non intendevano più dividere con altri
l'onore della prima fila sul palco: in fondo i Velvet
erano sopratutto loro due. Tornato a essere un quartetto
come agli esordi, il gruppo completò una lunga serie di
concerti estivi e si chiuse nuovamente in studio a
settembre per metter mano al materiale del secondo album.
White
Light White Heat fu nei negozi di dischi
qualche settimana prima che il 1967 fosse concluso e
dimostrò che in tema di estremismo estetico il primo
album costituiva solamente un saggio introduttivo. Quel
disco intitolato all'effetto delle amfetamine non
disponeva delle pause rilassanti (Sunday Morning, Femme Fatale, There She Goes Again, I'll Be Your Mirror) che bilanciavano l'effetto
terroristico del materiale più ostico (The Black Angel's
Death Song, European
Son)
presente sul primo album; qui l'aggressione sonora
("feedback" vorticoso e larga adozione di
"free-form" quasi jazzistiche nel metodo
improvvisativo) era totale e costante, raggiungendo il
culmine durante gli interminabili 17 minuti di Sister Ray, probabilmente la pagina
più radicale del rock degli anni '60 e certamente un
eliminabile punto di riferimento per tutta la musica
moderna. Superfluo aggiungere che, meno ancora del primo
album "sponsorizzato" da Warhol, White Light White
Heat
fu tutt'altro che un successo commerciale, tuttavia
rafforzò la fama di banda estrema e radicale che
circondava i Velvet, garantendo loro un'intensa attività
concertistica e le immancabili attenzioni dei più
avveduti tra gli addetti ai lavori (Brian Epstein, il
manager dei Beatles, si offrì di organizzare una loro
tournèe in Europa, ma le movimentate abitudini personali
di Reed e soci resero impossibile il coronamento di quel
progetto). Durante il 1968 i Velvet Underground girarono
lungamente nelle città dell'est, esibendo quel loro
spettacolo ancora crudo e implacabile come fossero i
primi giorni, ma la grande tensione creativa non poteva
non nascondere anche una forte contradditorietà dei
rapporti umani, particolarmente tra le due "teste
d'uovo": Lou Reed e John Cale.
Finchè a settembre, due giorni dopo l'ennesimo concerto
a Boston, Reed convocò Morrison e la Tucker in un caffè
del West Village; disse semplicemente: "John è
fuori dal gruppo".
Warhol era ancora in ospedale per le ferite infertegli a
colpi di rivoltella da una cortigiana delusa (accadde il
4 giugno, alcuni giorni prima che a Dallas venisse
assassinato John Fitzerald Kennedy), Cale sparì per
qualche tempo dalla circolazione, Reed smaltì un
esaurimento nervoso nella casa di Long Island. Qualcosa
era già finito.
Il sostituto di Cale, il giovane e piuttosto sprovveduto
Doug Yule, si mise in azione verso la fine di quel
travagliato 1968, entrando in sala di registrazione con
gli altri tre Velvet per confezionare le canzoni del
terzo album. Le carte in tavola erano cambiate: il
mutamento divenne immediatamente avvertibile quando si
potè ascoltare quel nuovo disco, tra i cui solchi si
avvertiva la maturazione (che è anche un po'
normalizzazione) compositiva del signor Lou, ma
totalmente assente lo spirito eversivo che aveva
accompagnato le precedenti realizzazioni e che quindi,
evidentemente, va retrospettivamente attribuito alla
matta testa gallese di John Cale. Intendiamoci, Third fu un album eccellente (What Goes On, Pale Blue Eyes, Beginning To See The
Light,
chi può dimenticare quelle canzoni?), il cui tono
teneramente persuasivo guadagnò altri numerosi consensi
alla banda di Manhattan, ma si trattava di un brillante
cantautore (Lou Reed) accompagnato da un buon gruppo, non
più certo di quel coacervo intricato e geniale che negli
anni precedenti era stato capace di rivoluzionare l'arte
musicale. Lou Reed aveva comunque ottenuto quel che
voleva (un gruppo completamente ai suoi ordini, quanto
meno stilisticamente), ma doveva far senza degli alter
ego (Cale, Warhol, la stessa Nico) che avevano permesso
la fioritura del suo naturale talento.
Mai come nel 1969, anno nella cui primavera sbocciò quel
soffice terzo album, i Velvet lavorarono sodo: concerti a
ripetizione in lungo e in largo per gli States (ne venne
ricavato un doppio disco, che nonostanze le assenze già
accumulatesi nel gruppo resta in live lapidario, tra i
migliori di tutta la vicenda del rock, presentando le
scarne versioni originali di futuri classici come Sweet Jane e Rock'n 'Roll), innumerevoli sedute in
studio che avrebbero permesso di mettere su nastro almeno
quindici nuove canzoni, quelle stesse che rimasero a
lungo inedite e costituirono la riserva a cui Lou Reed
attinse lavorando ai suoi album solisti. Come si sa,
buona parte di quel materiale è stato pubblicato nella
brillante retrospettiva intitolata V.U., e altre cose ancora stanno
in Another
View,
la raccolta di inediti "regalata" agli
acquirenti del cofanetto pubblicato in questi mesi, ma
all'epoca non fu possibile trasformare in vinile tutto
quel ben di dio poichè i Velvet stavano per cambiare
casa discografica, passando dalla Verve a quella stessa
Atlantic che, ironia della sorte, aveva cassato il master
del loro primo 33 giri.
Lo spirito del gruppo, perlomeno lo spirito originario,
si stava smarrendo in queste scelte che in un certo modo
contraddicevano il passato, sia amministrativamente sia
stilisticamente. Andy Warhol si occupava ormai di
tutt'altre cose, Nico e Cale collaboravano ancora
assiduamente, Lou Reed era insodisfatto e nervoso più
del solito. Stavano arrivando gli anni '70.
I Velvet sarebbero tornati a suonare a New York qualche
mese dopo. Sarebbero tornati a New York per sancire la
propria fine. Nonostante gli sbandamenti delle ultime
settimane, la missione era compiuta.
Alberto
Campo
da
Rockerilla n° 71/72 luglio/agosto 1986
|
- Featuring Nico
(?) Metro 2629 - vinile
1. I'm Waiting For The Man (L. Reed) 4.37 - 2. Candy Says (Velvet Underground) 4.09 -
3. Run,
Run, Run (L.
Reed) 4.18 - 4.
White Light/White Head (L. Reed) 2.44 - 5. All Tomorrow's Parties (L. Reed) 5.55 - 6. Sunday Morning (L. Reed) 2.53 - 7. I Heard Her Call My Name (L. Reed) 4.05 - 8. Femme Fatale (L. Reed) 2.35 - 9. Heroin (L. Reed) 7.05 - 10. Here She Comes Now (Velvet Underground) 2.00 -
11. There
She Goes Again (L.
Reed) 2.30 - 12. Sister Ray (Velvet Underground) 17.00 -
13. Venus
In Furs (L.
Reed) 5.07 - 14. European Son (Velvet Underground) 7.40 -
15. Pale
Blue Eyes (Velvet
Underground) 5.40 - 16. Black Angel's Death Song (L. Reed/J. Cale) 3.10 - 17. Beginning To See The Light (Velvet Underground) 4.46
Musicians:
Nico, Lou Reed, John Cale, Stirling Morrison, Maureen
Tucker
Produced by Andy Warhol
Cover By Andy Warhol
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