Lou Reed
album
in pagina:
- Transformer
- Berlin
- Rock'n
Roll Animal
- Magic And Loss
- Songs For Drella
(with
John Cale)
collabora in:
- Lost In The Stars/The Music Of Kurt Weill
(AA.VV.)
- Bright Red/Tightrope
- Homeland
- Life On A String
(Laurie
Anderson)
- Horses And High Hills
(Marianne Faithfull)
- Featuring Nico
- Velvet Underground And Nico
- White Light/White Heat
(Velvet Underground)
La
pubblicazione in contemporanea dell'antologia NYC Man, curata personalmente dall'autore, e
del volume The
Raven -
che l'editore Minimum Fax ha da poco stampato e che
raccoglie il testo dello spettacolo teatrale Poetry;
ispirato ad Edgar Allan Poe ed apprezzato dagli
appassionati anche per la sua riduzione discografica
intitolata come il libro - hanno confermato l'importanza
di Lou Reed, ed assegnato un ulteriore sfumatura storica
all'ambiente culturale che lo ha prodotto. Insieme a
pochi altri egli ha affermato la figura del musicista
indipendente, ricercatore a tutto raggio, rigoroso,
sorvegliato.
Non dipendenti da una singola attività riduttiva, e
indissolubilmente legati a quel senso di promessa insito
nella loro educazione, essi hanno spianato la strada ad
una discendenza di artisti per i quali l'esercito della
musica non è una professione nè una gloria, ma una
forma di felicità.
Attraverso l'impegno di questi artisti, New York ha da
tempo ribadito il suo ruolo centrale all'interno di
quella prospettiva che ha l'arte come destino.
Mentre al Chelsea Hotel William Burroughs e Allen
Ginsberg raccoglievano i ricordi di una vita senza
tregua; la città inventava la tecnologia del piacere
della disco-music, che si sarebbe poi riprodotta lungo le
derive della techno fino ad imprimere, con l'acid house,
l'ecstasy e la generazione chimica, una radicale
trasformazione del divertimento.
Aveva fatto da baricentro al teatro di Bon Wilson; al
nonsense delle New York Dolls e dei Ramones; ai testi e
alle fotografie di Gerard Malanga; agli esperimenti di
Alan Vega e di Glenn Branca; alle commedie di Sam
Shepard; alle canzoni meticcie di Mink De Ville; alla
disperazione di Jaco Pastorius, il geniale e sfortunato
bassista dei Weather Report, ridotto a vivere in un
furgone vicino ad un campo di basket; ai libri dolorosi
di Jim Carroll; agli articoli maledetti di Lester Bangs;
all'esperienza metafisica di Philip Glass e di Steve
Reich, i compositori che nelle sale da the e nelle
biblioteche pubbliche reclamavano con le loro ipotesi
minimali un silenzio del pensiero.
New York aveva fatto da cassa di risonanza all'onda
d'urto del punk, nato sulla costa occidentale dalle crepe
di un suono nero e aspro, ma esploso nella città che più
di altre sembrava dettare lo scambio tra paesaggio e
simulacro; come aveva compreso, scrutando lungo i versi
di una poesia urbana e visionaria, Martin Scorsese nella
violenta parabola di Taxi Driver - che allineava
Dostoevskij e insonnia notturna e sembrava davvero fare
da eco al monito dei Sex Pistols, il più celebre e il più
discutibile dei gruppi punk: quando non c'è futuro, non
ci può essere peccato.
Il clima psicologico della metropoli produceva il jazz
spigoloso e astratto di John Lurie; e la tensione del
Patti Smith Group che nel 1975 con l'ausilio di Robert
Mapllethorpe pubblicò, combinando Rimbaud e Rolling
Stones, il disco Horses - provocatorio manifesto di quel
contromovimento dove le canzoni conservavano la
componente di aggressività ma inciampavano nelle forme
gentili della poesia.
Secondo un nuovo canone di bellezza colto anche da Tom
Verlaine, autore insieme ai suoi Television del lunatico
e incantevole Marquee
Moon,
modello di riferimento di tanto rock contemporaneo.
C'è chi parlò, come Greil Marcus in un libro molto
importante intitolato Tracce Di Rossetto di affinità tra
il punk e il dadaismo. Marcus fu molto suggestionato
dall'insieme di questi avvenimenti, ma quello che accade
in quella lunga stagione condizionò in realtà la
sensibilità di molti artisti degli anni ottanta. Dalle
vessazioni di Lydia Lunch ai labirinti di Laurie
Anderson; dalla chimica di Arto Lindsay all'ert decò dei
Sonic Youth e alle astrazioni di Bill Laswell, fino ad
arrivare ai film di Amos Poe, di Susan Seidelman e di Jim
Jarmush. "Lo spirito era più importante di
qualsiasi abilità tecnica", arrivò a commentare il
regista di Stranger Than Paradise e Down By Law,
sintetizzando l'azzardo e l'avventura di quel periodo.
New York aveva espresso, dieci anni prima, la bellezza
sbandata dei Velvet Underground. Lou Reed, che ne fu il
principale protagonista, perseguiva la fede in un mondo
al di fuori della sua stanza. Aveva ereditato un profondo
senso di solitudine dal suo maestro Delmore Schwartz, lo
scrittore morto povero in una stanza d'albergo di
Manhattan, che a ventun anni aveva scritto il bellissimo
racconto Nei Sogni Cominciano Le Responsabilità,
mettendo insieme quasi profeticamente un'eredità europea
di memorie e un'eredità americana di desideri. Andy
Warhol, l'eccentrico rivelatore dell'arte seriale e della
multimedialità, disegnava la copertina a buccia di
banana del primo disco del gruppo, e visualizzava la
saldatura tra arte figurativa, letteratura e musica rock.
Warhol fu di fatto l'artefice della liberazione della
creatività americana rispetto alle mezze ombre
dell'ideologia europea. Se un autore del vecchio
continente vedeva con sospetto l'idea di ripetizione, un
autore del Nuovo Mondo la interpretava come una
componente esaltante. Non era un handicap, ma un nuovo
modello di riferimento per fare arte. New York aveva
articolato il proprio linguaggio musicale sopratutto su
un piano politico: il Village, Dylan, i Fugs. A fare da
spartiacque furono proprio i Velvet Underground. Essi
scelsero riguardo il suono di accentuare l'innata
ripetitività del rock'n'roll, situandosi attraverso
questa preferenza in una posizione non tanto distante da
quella dei compositori d'avanguardia degli anni sessanta
- impegnati anch'essi a ridurre agli estremi la musica e
a privilegiare la stasi e la ripetizione, creando così
nuovi standards di esecuzione e di fruizione; standards
ai quali non erano estranei il rito e la trance.
Riguardo l'uso delle parole invece i Velvet Underground
applicarono registri cupi, ambientando la loro
letteratura nei luoghi marginali della metropoli, in cui
l'illegalità è la norma. Il rock divenne pericoloso.
Anche se a digiuno di rock'n'roll ci aveva visto giusto
il giornalista Herbert Asbury, che nel 1927 aveva
pubblicato Gangs Of New York dove rievocava i fasti e le
imprese della malavita della città, svelando tuttavia
come la sua frenetica evoluzione conservasse un
retroterra di vizio, di povertà e di corruzione politica.
C'era del sangue sulla faccia della luna.
Ma "E' lo sguardo dello straniero che fa la
rivoluzione", come ammonisce Alain Robbe-Grillet, e
il disco di Brian Eno del 1981 My Life In The Bush Of Ghosts
era la
traduzione musicale di questa visione, e della multiforme
energia di new York. L'album formulava un insieme di
piani sonori accostati con ampia libertà sperimentale,
sfociando in un audace accostamento di primitive radici
culturali e possibilità della nuova tecnologia. Eno - già
responsabile del progetto No New York, prima e
sconcertante panoramica della corrente più estrema della
new wave newyorkese - lo incise con David Byrne. Byrne
era in quel periodo, grazie alla sua leadership nei
Talkin Heads, una delle figure più in vista della
disarticolata scena newyorkese. Eno aveva prodotto il
disco dei Talking Head Remain
In Light
del 1980, dove veniva sviluppata una nuova definizione di
suono e di ritmo.
Concepito su un principio di musica orizzontale,
rinunciando alla linearità del linguaggio ordinario,
l'album suonava davvero in maniera inconsueta, passando
attraverso un lavoro di improvvisazione composto da
materiali sonori preregistrati e da parti letterarie
ritagliate da giornali e programmi radiofonici, alzando
sensibilmente le aspirazioni della cultura rock, mai così
vicina alla rappresentazione globale della civiltà del
tempo.
Questa è la cornice di significato dentro la quale Lou
Reed ha mosso i suoi passi, scagliandosi di continuo
contro l'arte che funziona a luce diurna e vive del
principio del senso comune.
Sono trascorsi molti anni dal suo esordio ma Lou Reed
oggi più che mai appare, con tutta quell'organizzazione
di significati che la sua esperienza rappresenta, un
anello di congiunzione tra l'onda lunga degli anni
sessanta e i molteplici indirizzi di una ricerca ancora
molto vivace. Per fortuna.
Vittorio
Castelnuovo
da Rockerilla
n° 275 luglio-agosto 2003
|
-
Transformer
(1972) RCA yt 13806 - vinile
1. Vicius 2.55 - 2. Andy's Chest 3.17 - 3. Perfect Day 3.43 - 4. Hanging 'Round 3.39 - 5. Walk On The Wild Side 4.12 - 6. Make Up 2.58 - 7. Satellite Of Love 3.40 - 8. Waggon Wheel 3.19 - 9. New York Telephone
Conversation 1.31
- 10. I'm
So Free 3.07
- 11.
Goodnight Ladies 4.19
Musicians:
Lou Reed, Mick Ronson, Klaus Woorman, Herbie Flower, John
Halzey, Barry Desouza, Ritchie Dharma, Ronnie Ros
Produced by David Bowie and Mick Ronson
Recorded at Trident Studios, London
Cover photo by Karl Chakranerty
Transformer è l'album
della rinascita artistica di Lou Reed dopo l'esperienza
dei Velvet Underground. Con questo suo secondo disco
solista, pubblicato nel 1972, si impose all'attenzione
generale del rock cantando la parte scura della città,
quel sottobosco di perdizione e vizio così
meravigliosamente raffigurato nelle canzone Walk
On The Wild Side, assurta a simbolo,
con quell'irresistibile staccato "doo doo doo doo..."
di una New York trasgressiva e malsana che al tempo
destabilizzava il senso comune del pudore.
Oggi nessuno più si sorprende dei quartieri gay sparsi
nelle varie città del mondo, dei locali sadomaso e delle
drag queens che frequentano sia le discoteche alla moda
che le sit-com, di travestiti e fetish party ma allora,
agli arbori degli anni settanta, questo mondo era quasi
clandestino, suscitava scandalo e imbarazzo ed era
appannaggio solo di un ristretto giro artistico
anticonformista.
Di acqua ne è passata sotto i ponti, oggi i travestiti
fanno bella mostra di sè in prima serata in televisione,
del rock androgino sono pieni i tabloid, le drag queens
lavorano come cubiste nelle discoteche e le note di Walk
On The Wild Side accompagnano qualche
spot commerciale.
Il mondo cambia e anche Lou Reed è cambiato, quello che
ieri, con Transformer
era il nascente principe nero del rock oggi è un artista
serissimo che viene interpellato come opinionista sul New
York Time e realizza Poetry, piece tra musica e poesia su
Edgar Allan Poe.
Eppure nel 1972 Transformer
fu un album shock, per certi versi rivoluzionario e
anticipatore del cambio di costumi e morale collettiva.
Sebbene in Inghilterra David Bowie avesse già agitato la
sonnolenza del mondo pop con zeppe, lustrini e il
maquillage androgino di Ziggy Stardust,
fu proprio Lou Reed a portare a galla, senza mezzi
termini e nessuna vergogna, un mondo notturno e vizioso
che scivolava ambiguo nelle vie buie di una New York per
nulla turistica.
Certo gli artisti gay erano sempre esistiti, nel cinema,
nel teatro e nelle arti figurative ma il rock di Lou Reed
ebbe il rusultato di "legittimare" in un certo
senso questo universo, rappresentandolo nel suo crudo
realismo, narrandolo con freddezza e senza
autocompiacimento, cantandolo con quel tocco di poesia da
farlo sembrare umano e affascinante, in netta antitesi
con le fosche tinte usate dai pruriginosi benpensanti
dell'epoca.
Se coi Velver Underground Lou Reed aveva portato nel rock
l'avanguardia, a cominciare da Transformer
(ma si ricordi anche di capolavori come
Coney Island Baby, Berlin
e New York) l'artista
creò l'ambiente nel quale mettere una visione teatrale
ma realistica dei bassifondi del vizio, della dipendenza
dalle droghe e dal sesso, in seguito anche del dramma dei
tanti caduti di questa querelle urbana. La "wild
side" della città ebbe da quel momento il suo più
acuto cantore.
Musicalmente fu fondamentale l'aiuto ricevuto per quel
disco da David Bowie, già star del pop grazie ai
successi commerciali di Space Oddity
e Ziggy Stardust, che
invaghitosi di Waiting For My Man e
White Light/White Heat,
due canzoni dei Velvet Underground, diede una mano al suo
eroe nel produrre e arrangiare il disco dopo che questi
aveva clamorosamente fallito il suo primo album solista.
Con proprio chitarrista Mick Ronson, Bowie contribuì
alla realizzazione di Transformer e
ad una certa immagine glam che in quegli anni faceva
tendenza dopo tanto rock psichedelico. Nonostante il buon
lavoro con la chitarra di Ronson e la ricchezza
orchestrale del disco, non certo una prova di essenzialità
in termini di rock n'roll, furono le canzoni di Lou la
carta vincente del lavoro, canzoni come Walk
On The Wild Side,
Vicious, Perfect
Day e Satellite Of
Love diventate classici del rock
metropolitano.
Ballate malate che passeggiano con fare grottesco tra i
vicoli bui intervallate da un rock n'roll che sa di
pillole e frustate, il decòr di qualche canzoncina in
odore di cabaret sporcato dal sax di una bettola di
quart'ordine per marinai in libera uscita, Transformer
è un'opera lirica sulla parte
selvaggia della ciità.
Mauro
Zambellini da Buscadero n° 242 gennaio 2003
- Berlin
(1973) RCA nd 8438 8 - cd
1. Berlin 3.25 - 2. Lady Day 3.39 - 3. Men Of Good Fortune 4.37 - 4. Caroline Says 3.57 - 5. How So Yoy Think It Feel 3.43 - 6. Oh Jim 5.12 - 7. Caroline Says II 4.12 - 8. The Kids 7.51 - 9. The Bed 5.51 - 10. Sad Song 6.59
Musicians:
Lou Reed, Michael Brecker, Randy Brecker, Jack Bruce,
Aynsley Dumbar, Bob Ezrin, Steve Hunter, Gene Martynec,
Tony Levin, Allan MacMillian, Jon Pierson, Dick Wagner,
Steve Windwood, Dick Wagner
Produced by Bob Ezrin
Recorded at Morgan Studios, London
Engineering by Robin Black and Peter Flanagan
Il terzo
album solo di Reed è tutt'ora il suo capolavoro, Berlin
con la sua storia, con la sua musica che ti accarezza, ti
bladisce, ti solletica. Berlin con
la sua dolcezza disperata, con la sua tragica ironia.
Qualcuno lo ha definito un'opera rock. Ma forse è una
definizione limitativa: Berlin
è una vera e prorpia epopea.
Registrato a Londra (con qualche sovraincisione a New
York), con musicisti del calibro di Jack Bruce, Tony
Levin, i fratelli Brecker, Aynsley Dumbar, Steve Hunter,
Dick Wagner, Bob Ezrin, Berlin
ci mostra il lato più calmo, rilassato di Reed, la sua
poesia disperata.
Mai come in questo caso i testi sono parte integrante del
lavoro (ed infatti erano presenti nella confezione del
disco, caso unico per il musicista, con la sola eccezione
del recente Growing Up In Public).
Anche in questo caso sono presenti "pesanti" (ma
chi lo dice?) arrangiamenti di archi e fieti, curati dal
produttore Bob Ezrin e da Allan MacMillian; e sono
proprio tali arrangiamenti a conferire all'opera quel
fascino malato che la rende unica ed irripetibile.
Pensato solo un attimo a cosa sarebbe Sad
Song senza archi e fiati, con quel
crescendo spasmodico, quel senso di tragedia appena
stemperato dall'ironia dei fiati. Un lavoro da leggere
attentamente, brano per brano, per poter seguire la
storia in esso raccontata (l'amore tra due relitti nella
Berlino post bellica), troppo lungo da prendere in
considerazione nel poco spazio a mia disposizione.
Un disco difficile, dunque, ma che ripaga abbondantemente
tutti gli sforzi necessari ad "entrarci". Ed
una volta entrati vi sarà impossibile uscirne.
Maurizio
Petitti da Mucchio Selvaggio n° 44 settembre 1991
- Rock'n Roll Animal
(1974) RCA 07863 87946 - cd
1. Intro/Sweet Jane 7.46 - 2. Heroin 13.18 - 3. How Do You Think It Feels 3.41 - 4. Caroline Says 3.55 - 5. White Light/White Heat 5.21 - 6. Lady Day 3.54 - 7. Rock'n Roll 9.33
Recorded live at Howard Stein's Academy of Music, New
York City
Produced by Steve Katz and Lou Reed
Disco spettacolare e strepitoso, testimonianza di un
periodo creativo che ha fatto sognare molti ma ha
lasciato molte vittime sul campo, Rock'n
Roll Animal è uno dei migliori live
della storia del rock ed è una delle pietre miliari
degli anni '70 con quel sound duro e metallico,
devastante nel ritmo, oscuro e trasgressivo nelle liriche.
In scena c'è un Lou Reed quasi rasato a zero che gioca
con mosse androgine e nervose a fare il cattivo maestro
ed il principe dei bassifondi mentre la band suona col
coltello tra i denti, sferragliando un rock newyorkese di
grande potenza con qualche concessione al glam e feroci
assoli di chitarre.
Il set è incredibile, canzoni rese celebri dai Velvet
Underground come Heroin,
White Light/White Heat,
Sweet Jane e Rock'n
Roll vengono ridefinite con le
lunghezze del live e con un suono ad alto tasso
energetico, borchiato ed eccitante, quintessenza della
violenta "urban life" newyorkese e pregna delle
devianze e delle trasgressioni dell'epoca.
Un disco epocale, appunto, base di svolgimento per quanti
rockeranno la città e l'oscurità di New York come Blue
Oyster, Patti Smith, Television, Urban Verbsm David
Johansen, Johnny Thunders e via dicendo.
Heroin è una
lancinante e selvaggia cavalcata su e giù nelle vene, Sweet
Jane con il suo famoso intro
chitarristico al calor bianco e Rock'n
Roll sono l'apoteosi dell'estetica rock
anni '70 con quei riff torcibudella e quei refrain che ti
bucano il cervello, White Light/White
Heat corre sugli impulsi di una musica
tossica e pericolosa. Lady Day,
almeno nella versione originale dell'album, è l'unico
estratto dallo straziente ed immortale cabaret di Berlin.
Mauro
Zambellini da Buscadero n° 213 maggio 2000
- Magic And Loss
(1992) Sire 7599 26662 - vinile
1. Dorita The Spirit 1.07 - 2. What's Good The Thesis 3.22 - 3. Power And Glory The Situation 4.23 - 4. Magician Internally 6.23 - 5. Sword Of Damocles Externally 3.42 - 6. Goodbye Mass In A Chapel Bodily
Tennlnation 4.25 - 7. Cremation Ashes To Ashes 2.54 - 8. Dreamin' Escape 5.07 - 9. No Change Regret 3.15 - 10. Warrior King Revenge 4.27 - 11. Harry's Circumcision Reverle Gone Astray 5.28 -
12. Gassed
And Stoked Loss
4.19 - 13.
Power And Glory II Magic/Transformation 2.57 - 14. Magic And Loss The Summation 6.39
Musicians:
Lou Reed, Mike Rathke, Rob Wasserman, Michael Blair,
Jimmy Scott
Produced by Lou Reed and Mike Rathke
Recorded at The Magic Shop, New York City April 1 - 27
1991
Engineering by Roger Moutenot
Cover photo by Luis Jammes
New
York scarnificava a morsi la "grande
mela". Magic And Loss,
il nuovo lavoro di Lou Reed, scava invece nel privato.
Assiste al duello tra l'Uomo e la Grande Malattia. Un
duello nel quale l'Amore e la Morte sono un tutt'uno
inscindibile.
Registrato a New York dall'1 al 27 aprile 1991, Magic
And Loss avrebbe dovuto vedere la luce
sin dallo scorso novembre.
Lou ha preferito posticipare la pubblicazione a questo
inizio d'anno per far si che l'opera non passasse
inosservata nel marasma delle mille proposte
discografiche prenatalizie.
i quattordici brani dell'album, un concept a tutti gli
effetti, sono da destinarsi alla memoria di due fratermi
amici del cantante, morti per cancro. Magic
And Loss è come Berlin?
E' paragonabile a quel capolavoro per il potente impatto
drammaturgico di tutto l'insieme.
Ci troviamo al cospetto di un grande poeta che è al
tempo stesso un lucido cronista del presente.
Di testi che sono coltelli affilati e respiri d'amore ch
consentano di restare aggrappati all'ultimo brandello di
vita. Di suoni ancor più essenziali e scheletrici che in
New York: le chitarre
di Lou e di Mike Rathke, il basso di Rob Wasserman e le
percussioni di Michael Blair.
Un disco che vive di implosioni e di atmosfere minimali.
I brani Dorita: una
manciata di secondi per chitarre elettriche e percussioni
alla Moe Tucker. Un muro sonoro. What's
Good: rock and roll frizzante di
classico stampo lureediano. Energico e lineare, è anche
incluso nella soundtrack di "Until The End Of The
Word", il film di Wim Wenders. Power
And Glory: la scansione della batteria
è a tu per tu basso chitarra rammenta The
Day John Kennedy Died
di The Blue Mask.
Ottimo l'inserimento della seconda voce di Jimmy Scott. Magician:
la voce è poco più di un sussurro. Il suono di basso e
chitarra è impalpabile e straordinariamente suggestivo. Sword
Of Damocles: è una ballata a sfondo
orchestrale con la chitarra acustica a sostenere il tutto.
Goodbye Mass: si apre
la fase dell'album spiccatamente minimale. Musica
atmosferica ridotta al lumicino per voce recitante. La
batteria pulsa come in un battito cardiaco. L'eco delle
chitarre rammenta atmosfere alla "Twin Peaks". Cremation:
le sonorità sono sempre più scarne. Il giro armonico
della chitarra acustica flirta con la gran voce di Lou
Reed. Dreamin': un
sussurro musicale etereo e sfuggente. Pochi accordi di
chitarra e rintocchi percussivi. No
Change: un pezzo che nasce disossato e
che prende ossigeno strada facendo. Che via via si
arricchisce con l'entrata dei vari strumenti. Warrior
King: rock and roll della migliore
stoffa. Coriaceo, impossibile da scalfire. Harry's
Circumcisium: Lou Reed narratore.
Musica quasi azzerata. Come certe cose di John Cale. Cassed
And Stocked Loss: le chitarre
elettriche stendono un tappeto blueseggiante sul quale la
batteria picchia duro. La voce di Lou Reed è tossica,
strascicata, nervosa. Power And Glory II:
l'altra faccia di Power And
Glory è rock
amfetaminico a un passo dal feedbeck. La battieria è
pura terapia elettroshock. Irresistibile. Magic
And Loss: l'incedere è notturno,
avvolgente. Con un assolo centrale alla lead guitar che
lascia il segno e un finale quasi in distorsione.
Degno epilogo per un "must" del 1992.
Stefano
Ventini da Buscadero n° 121 gennaio 1992
- Songs For Drella
with John Cale
(1990) Sire 7599-26140 - vinile
1. Smalltown 2.03 - 2. Open House 4.16 - 3. Style It Takes 2.54 - 4. Work 2.36 - 5. Trouble With Classicists 3.40 - 6. Starlight 3.26 - 7. Faces And Names 4.11 - 8. Images 3.28 - 9. Slip Away (A Warning) 3.04 - 10. It Wasn't Me 3.29 - 11. I Believe 3.17 - 12. Nobody But You 3.44 - 13. A Dream 6.33 - 14. Forever Changed 4.49 - 15. Hello It's Me 3.03
Musicians:
Lou Reed,
John Cale
Produced by Lou Reed and John Cale
Recorded at Sigma Sound, New York
Cover photo by James Hamilton
Brooklyn,
interno della St. Ann's Church, domenica 8 gennaio 1989.
Sono trascorsi due anni dalla scomparsa di Andy Warhol.
Si danno appuntamento dinanzi all'altare due suoi "figli":
Lou Reed imbraccia la chitarra elettrica, John Cale si
siede alle tastiere. Si sono ignorati per vent'anni ma
adesso sono lì, a disegnare un immenso atto d'amore: una
suite in quindici movimenti per ricordare il sovrano
della Pop Art.
Il tam tam è rimbalzato da una parte all'altra di New
York; l'intellighenzia è stipata nella cattedrale:
fedeli seguaci, amici o semplicemente ammiratori di Andy
ascoltano l'opera in silenzio. Il successo è grande.
Una manciata di mesi più tardi si replica; questa volta
la cornice è la Brooklyn Academy, in occasione del Next
Wave Festival.
E' stata sufficiente qualche telefonata ed è bastato
dare un calcio ai vecchi trip egocentrici per rendere
concreto il progetto Songs For Drella.
Messi in archivio gli attriti velvettiani del Banana
Album e di White Light, White Heat (duello
di due geniali cervelli a colpi di parole infuocate),
Reed e Cale hanno potuto ritrovarsi e rendere omaggio a
Warhol. Hanno scritto e riscritto, eliminando ogni facile
retorica.
Songs For Drella, oggi
è un album del quale innamorarci; lo straordinario
ritratto di Andy lavoratore multimediale, il Dracula che
succhiava linfa dall'arte per rendere inimitabile la
propria Arte, nonchè la nitida fotografia dell'uomo
Andy, Cindirella sensibile e indifesa fuori dalle luci
della ribalta.
Quindici brani che hanno i colori violenti delle
Campbell's Soup Cans e il sorriso di Marilyn; che
rammentano l'incessante operosità della Factory e
l'esplosione del Plastic Inevitable show dei Velvet
Underground; che sbattono in faccia il ricordo di una
revolverata, quella di Valerie Solenis (un maledetto 8
giugno '68) e che passano al setaccio la velocità dei
parties newyorkesi.
Lou Reed e John Cale in splendida solitudine, hanno
potuto concepire Songs For Drella
dopo aver fatto tesoro dell'esperienza-Velvet e delle
reciproche carriere soliste. Soltanto ora ha potuto
prendere forma quest'opera, perchè sono esistiti
capolavori del calibro di Transformer,
Paris 1919, Berlin,
Fear, Coney
Island Baby, Songs For
A New Society e New
York.
Due voci, chitarra, viola, pianoforte, tastiere
elettroniche e nient'altro: Lou canta in Smalltown,
Open House, Work,
Starlight, Images,
Slip Away, It
Wasn't Me, I Believe,
Nobody But You e Hello
It's Me; John in Style
It Takes, The Trouble
With A Classicists, Faces
And Names, A Dream e
Forever Changed.
In quasi tutti i brani è Andy Warhol a parlare in prima
persona, ulteriore grande magia da parte di Cale e Reed.
Per quanto riguarda invece la musica, è il risultato di
una amalgama tra il proverbiale suono urbano del
newyorkese e il nobile classicismo del gallese.
Prologo di Songs For Drella è
Smalltown, ossia
Pittsburgh, troppo stretta per Warhol in cerca di fortuna.
Le mille luci di New York sono un richiamo irresistibile.
Pochi minuti, l'inconfondibile voce "narrante"
di Lou Reed che si muove in cima alle note di un
pianoforte in odor di cabaret. Open
House, ovvero il raggrupparsi della
"corte" warholiana, è invece un pezzo
ripetitivo e atmosferico per piano, synth e chitarra,
mentre con Style It Takes
ci si immerge nel microcosmo classicheggiante caro a John
Cale.
Work, riporta nel
cuore delle dissonanze di White Light,
White Heat: chitarra in distorsione e
piano "avangarde"; The Trouble
With A Classicists rimanda al Cale
fagocitante e sperimentale. Con Starlight,
Faces And Names e Images
viene ripercorsa la notorietà di
Drella, re indiscusso della Factory: il primo brano è
rock loureediano teso allo spasimo; il secondo lascia
trasparire la facilità con la quale Cale riesce ad
afferrare le atmosfere cabarettistiche; il terzo
riagguanta la durezza velvetiana.
A questo punto Songs For Drella
sterza bruscamente: le luci cedono spazio alle ombre;
Andy Warhol si sente perseguitato, pedinato. Slip
Away è il presagio di un pericolo
imminente; It Wasn't Me,
pianoforte glassiano e chitarra in un mix di classico e
di avanguardia, prima della caduta nel baratro con I
Belive, cronaca di un tentato omicidio.
Andy Warhol vede la Morte in faccia e ripensa alla
propria esistenza: la ballad Nobody But
You cede il passo a A
Dream e all'incedere di pianoforte e
chitarra di Forever Changed.
Siamo all'epilogo: la viola carezzevole di Cale e la
chitarra disintossicata di Reed si incontrano per
l'ultima dichiarazione d'amore, Hello
It's Me. Scende il sipario su un disco
che definire affascinante è riduttivo, più efficace di
qualsiasi altra commemorazione warholiana. Lou Reed e
John Cale, storia di un'amicizia ritrovata.
Stefano
Ventini da Buscadero n° 103 maggio 1990
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