Brendan Perry
album
in pagina:
- Eye
Of The Hunter
-
Ark
collabora in:
- Aion
- Dead Can Dance
- Dionysus
- Into The Labyrinth
- Spiritchaser
- Spleen And Ideal
- The Serpent's Egg
- Toward The Withnin
- Withnin The Real Of A Dying Sun
- Anastasis
(Dead Can Dance)
- It'll End In Tears
(This Mortal
Coil)
- Chansons Des Mers Froides
- Glyph
- Lights In The Dark
(Hector
Zazou)
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- Eye Of The Hunter
(1999) 4 AD 8 48436 - cd
1. Saturday's Child - 2. Voyage Of Bran - 3. Medusa - 4. Sloth - 5. I Must Have Been Blind - 6. The Captive Heart - 7. Death Will Be My Bride - 8. Archangel
Musicians:
Brendan Perry, Glen Garrett, Liam Bradley, Martin Quinn,
Michael Brunnock
Produced by Brendan Perry
Perdute le
visioni femminili del progetto Dead Can Dance, Brendan
Perry presenta nella sua prima prova solistica
l'effettiva essenza del suo comporre.
Eye Of The Hunter -
arcane ballate srotolate con saporosa lentezza - riporta
le tipiche stasi di malinconia e quel senso di
"altri tempi", ascoltate sotto la vecchia
sigla. Ma mostrano come Perry fosse, lì, il peso
specifico, mentre la sua ex compagna Lisa Gerrard
rappresentasse già la parte espansa.
Ammalianti nella magia della voce e con una
strumentazione essenziale e registra con senso del
sublime, le composizioni incrociano anche cadenze blues
ma quasi medioevali. E con una riuscita cover
dell'inarrivabile Tim Buckley (I Must
Have Been Blind), si pongono come
esempi luminosi della più tipica canzone d'autore.
Antonello
Antonelli da World Music n° 41 marzo 2000
- Ark
(2010) Cooking Vynil 520 - cd
1. Babylon
- 2. The Bogus Man
- 3. Wintersun
- 4. Utopia - 5. Inferno - 6. This Boy
- 7. The Devil And The Deep Blue Sea
- 8. Crescent
Musicians:
Brendan Perry solo
Produced by Brendan Perry
Recorded at Quiwy Studios, Ireland
Engineered by Aidan Foley
Cover photo by Dan Van Winkle
Mancava dalle scene dal 1999. Ossia da quel Eye Of
Hunter che aveva in qualche modo sancito la fine dei Dead Can Dance,
riconsegnandoci un Brendan intriso di cantautorato e art-folk e ben
deciso a realizzarsi fuori dal raggio espressivo del gruppo madre e dal
suo mistico rigore.
Questo ritorno, per la prima volta non siglato 4AD, abbisogna di
disponibilità e pazienza per essere assaporato a dovere. Se da un lato
infatti Brendan Perry si riavvicina alle radici eighties di un certo suo
concetto di atmosfera, dall'altro aggiunge alle partiture una sorta di
impianto ritmico a un dispresso industrial che lascia sul momento
straniti e che tiene definitivamente fuori dall'operazione tutto
l'incanto religioso e rituale che fu una parte cospicua dell'immaginario
Dead Can Dance. E riaffiorano dunque reminiscenze Scott Walker, Eyeless
in Gaza, persino le pagine più sperimentali e meditative dei Depeche
Mode periodo Music For The Masses. Eppure ad un ascolto attento
l'album finisce davvero col conquistare.
Ed emerge intanto il talento vocale di uno dei più grandi cantanti del
rock anni Ottanta, all'epoca ingiustamente offuscato dalla presenza
trascinante della Gerrard: Brendan è qui un crooner vibrante,
emozionale, misterioso, sensuale e profondo. Poi fa capolino la bellezza
della musica, appena sciupata da una produzione davvero non all'altezza
del personaggio: facile immaginare cosa sarebbero divenute queste note
maestose e dolenti, ove un'orchestra vera e propria avesse valorizzato
gli arrangiamenti d'archi e una batteria reale, dotata di umana
espressività, avesse dato i giusti accenti al montare delle atmosfere.
Adesso il range tra la fascinazione del cantato e l'orchestrazione
sintetica è tale da provocare il rammarico dell'occasione mancata per il
capolavoro. Che non si dica però che questo non è un bel disco.
Piergiorgio Pardo da Blow Up n° 146 Luglio 2010
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