Soft Machine



album in pagina

- Soft Machine
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Volume Two
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Third
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Fourth
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Fifth
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Six
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Live In France
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Alive And Well
- Legacy Live In Zaandam
- Jet Propelled




Tutto iniziò dall'altra parte dell'oceano; sembrava forse allora, come oggi il Paisley, una moda passeggera. Ma il Crosby delle Eight Miles High stava sospendendosi su trapezi sempre più vertiginosi, e qualche I See You ormai ne faceva anche a meno. Certo, allora correva l'anno 1965 e l'America faceva finta di non accorgersi di tutto questo come quasi non si accorgesse che c'era un Vietnam a pochi meridiani di distanza.

Nonostante la precocità degli eventi, e anche se in Inghilterra molte delle vicende sarebbero state vissute come un dato di costume (l'origine di ogni look-ismo), gli "enfant terrible" del Commonwealth stavano embrionalmente organizzando un esplosivo futuro. E' vero, non ancora dalle parti di Tottenham Court Road, ma in qualche ampia casa d'amico zeppa di "Stockhausen e Ligeti" come di "Rotko e Pollock", fra spesse bollicine di birra e lunghe discussioni. Quello stesso anno li trova già tutti alle strette fra Beatles "fuor d'ortodossia" e qualche Screaming, Abdabs "bluseggiante" che sta per eliminare il vecchio chitarrista Bob Close per uno strano tizio scarmigliato; intorno i suoni stanno inacidendosi e Pete Brown scrive testi per i Cream, il vecchio Marquee non basta più e la nuova "popolazione giovane" guarda di lì dall'oceano alle "throbbing cadences" dei neonati Velvet attraverso lo spiraglio dell'alternatività assoluta offerto dai nuovi fenomeni underground. E' poi vero che attrarrà quasi tutti i consensi il ghiro di "White Rabbit", capace di farsi mentore, sul biplano Jefferson, delle perdizioni-Leary ("ricordati cosa disse il ghiro: ciba la tua testa"), e anche questo è segno dei tempi; poi l'individualismo inglese filtrerà tutto con una buona dose di originalità. Quel che accade val bene una similitudine: è il passaggio immediato dai giochi piccoloborghesi della "dolce vita" alla camera oscura di David Hemmings in "Blow Up" - il salto è inquietante, la chitarra spezzata abbandonata sul marciapiede non è che la violenza che i Presley "contenevano" lasciata dirompere e che in Via Veneto appena appariva -. La casa dei nobili, covo per le prime "sregolatezze" di gruppo, è per le nuove generazioni la casa "exploited" di Zabriskie Point o quella "evacuata" di Strawberry Statement. E sopratutto la ribellione esce dalla fontana di Trevi, calca le moto di Easy Rider, diventa rivoluzione in If (film di Lindsay Anderson), mostra come è preferibile il Dean Moriarty (e Japhy Rider) rispetto agli stereotipi della precedente generazione.

Questi gli "estremi" del nostro discorso; certo è che allo scadere del periodo di preparazione, chi giungerà per primo alla sala di registrazione con le carte in regola saranno - per caso fortuito - proprio i Soft Machine. Con le parole del Gomelsky "psychodelico", "...di tutti i gruppi psichedelici i Soft Machine furono non soltanto i primi - i Pink Floyd li seguirono - ma anche i più interessanti con una graziosa mistura di personalità e di background". Comunque la si pensi, non è spiacevole far notare che se oggi esiste uno spazio per gruppi quali Skeleton Crew (relativo), Working Week - per certi versi - Everything But the Girl, è merito dell'enorme strappo nel tessuto dei business da loro effettuato in quel periodo contrastato.

Un elogiatissimo Mr. Frame stilò nel '77 per una tripla antologia Harvest del gruppo più attendibile e laborioso albero genealogico di molti dei figli della Simon Langston School di Canterbury di cui Ian McDonald già disquisiva sul numero del gennaio 1975 del New Musical Express: "...La scuola era all'avanguardia, esclusiva, il posto ideale per l'educazione dei figli degli intelettuali e degli artisti locali. I più anziani - riferendoci all'anno scolastico 1961 - erano Mike Ratledge e Brian Hopper; studiavano Hindemith e arrangiavano le due sonate per piano e clarinetto. (...) Di due anni più giovane era un altro Hopper, Hugh; all'epoca tentava di imitare il fratello "major" suonando sax e chitarra non essendoglisi ancor detto nulla sul basso che avrebbe fatto la sua fortuna. Pari corso di Hugh, anche se in una delle classi del ramo artistico, il sedicenne Robert Wyatt dipingeva e si ingegnava polistrumentista. Dave Sinclair, più giovane di loro di un anno nonostante già strimpellasse il piano, non fece in tempo a diventare loro amico".

Il "ritrovo" di cui si è detto, nel quale circolavano anche dischi del nuovo jazz di Mingus, Coleman, Monk e Taylor è proprio la casa di Wyatt in cui il via vai di gente è continuo e l'aspetto "happening" della cosa ha forse la "sbracatura" della copertina di
Third. In ogni caso, si viaggia e si fanno gli incontri più strani appena ci si libera del fardello scolastico; Wyatt scappa in Spagna dove certo George Niedorf lo inizia al sotori batteristico e alla conoscenza dell'australiano Daevid Allen, dedito all'assunzione di suoni e "visioni" a gocce su zollette, fra le quali si consumano molteplici possibili reali.

Ritornando a casa il nostro si unisce alla combricola di Hopper e di un giovane cantante-bassista, Kevin Ayers, contribuiendo alla nascita della prima formazione dei Wilde Flowers (giugno 1963). Come pure rivelano i geroglifici di Frame, essa fu la pietra miliare di tutto,
The Canterbury Stone; senza di essa non ci sarebbero stati i gloriosi Delivery, Egg, Uriel, Khan, DC & MSb, gli 801, i National Health, gli Hatfield and The North, gli stessi Caravan e Soft Machine e tanti altri "del giro". Anche Ian McDonald, nell'opera di Frame, si chiede se questo "frammento" aveva qualche idea su ciò che stava iniziando: piuttosto che perder tempo a rispondergli preferiamo vedere questa prima storica "line up" che oltre al trio Wyatt/Hopper/Ayers affiancava il Sinclair; quasi subito se ne vanno Ayers e Sinclair, il primo sostituito da tal Graham Flight che non giunge alla successiva formazione. E' fisicamente impossibile tentare di narrare tutti gli spostamenti di "personnel" così irrequieti e volubili, un caleidoscopico sottobosco (proprio di Canterbury) di creature costrette frequentemente (fin troppo) ad appendere lo strumento al chiodo - una concezione di "musician" troppo elastica (menefreghista del denaro, ipersensibile e di vera commistione dell'arte con la vita), per essere accettato dal business che conosciamo -. In ogni modo sentiamo quel che dice Hugh Hopper a proposito di quella acerbissima esperienza: " Il primo "gig" dei Wilde Flowers fu al Bear & Key Hotel in Whitseable, Kent. Suonammo Chuck Berry, Beatles e pochissimo materiale originale". Il seguito dell'esperienza, con formazione mutata, fa si che il gruppo riesca persino ad emergere in una qualche sorta di "Cantagiro" locale, e talvolta - come a Margate, in una rassegna organizzata dalla "pirate" Radio Caroline - riescono anche a vincere (anche se le informazioni puntualizzano che: "Coughlan non fu in grado di esibirsi" e "Robert (Wyatt, n.d.s.) dovette sobbarcarsi sia la parte della batteria, sia quella del canto. Suonammo You Put A Spell On Me, Sunny e Papa's Got A Brand New Bag), ma il sound rythm'n blues del gruppo è già da tempo ostico e indigesto per gli erratici Ayers e Wyatt.

Così, parallela alla Wild Flower Experience, se ne fanno molte altre in viaggi para-kerouckiani per l'Europa, partendo dal '63; certo non si prende sul serio quella piccola celebrità e non si dà retta a nessuno. I nostri fanno tappa frequentemente a Parigi e poi a Maiorca che con le note Formetera e Ibiza erano un po' la sede dell'Internazionale Freak; gli ameni paesaggi e i misteriosi tramonti ben vengono a conciliarsi con le sperimentazioni sul materiale sonoro che si iniziano a concepire. Così quando Wilde Flowers si rivoltava nella sua amaca di banalità, almeno altrettanto qui ci si affeziona alla gioia purissima della scoperta. Si cospargono di sabbia gli ultimi dischi rimasti sul grammofono, quelli marcati ESP record company di New York, quelli di Mingus, quelli di Edgar Varese: il vento non sarà capace di scacciarla. Sono i semi del futuro che si gettano, assieme al Dingo Virgin, alias Daevid Allen, un tempo temporanea comparsa nel carrozzone dell'allora sconosciutissimo Terry Riley. Non ci si divertirà mai più così tanto, comunque, anche se i Tape-Loops ricompariranno periodicamente in
Third e successori (manovrati da altri). Manca un tastierista, che si trova presto in Mike Ratledge intuitivo e strutturale; si salutano i Pye Hasting dai destini consimili anche se più oscuri e la "separazione legale" dei "fiori selvaggi" si consuma. Senza Wyatt, dopo il '66, il gruppo diventa un più precisato nucleo pre-Caravan e pre-Delivery, sopravvivendo sino al marzo del 1967.

A. S. da Rockerilla  n° 58 giugno 1985


- Soft Machine
(1968) Probe CPLP 4500 x - vinile

1. Hope For Happiness (Hopper/Ayers/Ratledge) 4.22 - 2. Joy Of A Toy (Ayers/Ratledge) 2.56 - 3. Hope For Happines - reprise (Hopper/Ayers/Ratledge) 1.31 - 4. Why Am So I Short? (Hopper/Ayers/Ratledge) 2.33 - 5. So Boot If At All (Ayers/Ratledge/Wyatt) 2.33 - 6. A Certain Kind (H. Hopper) 4.06 - 7. Save Yourself (R. Wyatt) 2.26 - 8. Priscilla (Ratledge/Ayers/Wyatt) 1.05 - 9. Lullabye Letter (K. Ayers) 4.26 - 10. We Did It Again (K. Ayers) 3.40 - 11. Plus Belle Qu'Une Poubelle (K. Ayers) 1.05 - 12. Why Are We Sleeping? (Ayers/Ratledge/Wyatt) 5.26 - 13. Bos 25/4 Lid (Ratledge/Hopper) '48

Musicians:
Mike Ratledge,
Kevin Ayers, Robert Wyatt

Produced by Chas Chandler and Tom Wilson

Soft Machine, ovvero una delle più brillanti e forti esperienze estetiche sotterranee che mai abbiano inchiodato assieme e con talento jazz e avanguardia, ballata rock e inquietudine extracolta nel defluire degli anni sessanta. Si sono già spese parole a proposito della "storia" del gruppo, ma qui vorremmo ancora una volta sottolineare la fantastica contaminazione, la prestidigitazione stravagante dei suoni, l'inteccio divertito degli stupefatti Robert Wyatt, Kevin Ayers e Mike Ratledge, dinnanzi al baldacchino gonfiabile dellaa "principessa patafisica". Al di là del disco, provate un attimo ad immaginarvi i produttori Tom Wilson e Chas Chandler alle prese con tanta materia fertile e, ancora pià all'esterno, l'universo hippie di Hendrix, grande amico del trio: qualcuno noterà l'apparente inevitabile groviglio delle ispirazioni. Qualcosa di tutto questo - e un po' di più - c'è in questa lontana ufficiale prova (pubblicata nel 1968 dalla Probe soltanto negli USA).
Da
Hope For Happiness a
Box 25/4 Lit, via Joy Of A Toy, A Certain Kind e Save Yourself, i solchi si inventano un dadaismo inedito e - come per l'iniziale esperienza dei componenti Caravan - un umbratile riconoscibilissimo climax. C'è qui dentro la primitiva vocalità (e il drumming) di Wyatt con tanti ascolti di John Coltrane e jazz-singers in giro, c'è la primeva arte fuggevole ed elusiva delle tastiere di Ratledge coi suoi tocchi di performer innovatore e sperimentatore, c'è il germoglio della trama aristocratica che Ayers risolve con variegati "fotogrammi" impressionati nelle sue "non strutturate" linee di chitarra. E se poi un disco vale anche per la sua originale copertina "gatefold" (apribile), potete tranquillamente aggiungere anche questo Soft Machine al resto della collezione.
Bacci, Badino e S. (The Softmachinery Fanclubbers) da Rockerilla n° 86 ottobre 1987

- Volume Two
(1969) Big Beat wika 58 - vinile

1. Rivmic Melodies (including):
a)
Pathaphysical Introduction (R. Wyatt) - b) A Concise British Alphabet pt 1 (H. Hopper/R. Wyatt) - c) Hobou, Anemone And Bear (M. Ratledge/R. Wyatt) - d) A Concise British Alphabet pt 2 (H. Hopper/R. Wyatt) - e) Hulloder (H. Hopper/R. Wyatt) - f) Dada Was Here (H. Hopper/R. Wyatt) - g) Thank You Pierrot Lunaire (H. Hopper/R. Wyatt) - h) Have You Ever Been Green? (H. Hopper/R. Wyatt) - i) Pataphysical Introduction pt 2 (R. Wyatt) - j) Out Of Tunes (R. Ratledge/H. Hopper/R. Wyatt)

2. Esther's Nose Job
(including):
a) As Long As He Lies Perfectly Still (M. Ratledge/R. Wyatt) - b) Dedicated To You But You Weren't Listening (H. Hopper) - c) Fire Engine Passing With Bells Clanging (M. Ratledge) - d) Pig (M. Ratledge) - e) Orange Skin Food (M. Ratledge) - f) A Door Opens And Closes (M. Ratledge) - g) 10.30 Returns To The Bedroom (H. Hopper/R. Wyatt/: Ratledge)


Musicians:
Mike Ratledge,
Robert Wyatt, Hugh Hopper

Produced by Soft Machine
Engineered by Phil Smee
Cover by Byron Gotto

Dalle notti nere dell'underground londinese all'UFO Club di Tottenham Court Road, i Soft Machine emergono con tutta quella carica avanguardista che avrebbe poi offerto i capitoli più radicali del così detto Canterbury Sound. Siamo sul finire degli anni sessanta (1969) e in Inghilterra le istanze del pop si intrecciano a quelle della controcultura locale grazie anche al contributo di giornali underground con l'International Time e l'apertura di spazi come l'UFO.
Proprio da quello e da altri ritrovi il flusso di una corrente culturale alternativa in seno al pop britannico si produce in senso creativo. Il fenomeno dell'underground fa di Londra il suo quartiere generale.
E' il tempo di sintesi musicali azzardate e sorprendenti e di menti aperte alla sperimentazione.. Nei locali giusti si ascolta musica liberata dagli schematismi di certo pop, aiutata dalla prassi di un'improvvisazione qualche volta grezza. La struttura musicale che alcuni gruppi cominciano a frequentare è più "libera", senza l'ardimento di una liberazione totale. Restano magari fissi i temi di apertura e chiusura di un pezzo, ma nel mezzo le parti più o meno improvvisate lasciano agio ad una sperimentazione anche sonora.
In questo clima i Soft Machine incarnano una tendenza di assoluta avanguardia. Quando elaborano il materiale per questo
Volume Two fanno sentire più chiaramente la loro estrazione jazz. Il gruppo è già stato in America al seguito di Jimi Hendrix, ha registrato il suo album d'esordio, affollato d'intuizioni sino al rischio di confondersi, e ha subito vistosi rimaneggiamenti di formazione. Kevin Ayers se n'è andato, subito rimpiazzato da Hugh Hopper, e così i Soft Machine muovono ancora una volta in trio: Robert Wyatt, Mike Ratledge e Hopper.
Registrano dunque il secondo capitolo di una vicenda bizzarra e importante.
Volume Two ricompone elementi disparati in un lucido volo di fantasia. E' un esempio di psicadelia colta e avant-garde, una sintesi evoluta di ultrarock e free jazz che recupera intuizioni dal movimento dada e trasuda schiuma patafisica.
In ogni modo musica intelettuale che prelude alla focalizzazione di
Third, il doppio album all'apice della creatività del gruppo.
Bacci, Badino e S. (The Softmachinery Fanclubbers) da Rockerilla n° 86 ottobre 1987

- Third
(1970) Columbia col 471407 - cd

1. Facelift 20.00 - 2. Slightly All The Time 18.10 - 3. Moon In June 19.20 - 4. Out - Bloody - Rageous 19.10

Musicians:
Mike Ratledge,
Robert Wyatt, Hugh Hopper, Elton Dean, Rob Spall, Lyn Dobson, Nick Evans, Jimmy Hasting

Recorded at I.B.C. Recording Studio and at Fairfield Hall, Croyton, January 4, 1970 and at Mother's Club, Birmigham, January 11, 1970
Engineering by Andy Knight and Bob Woolford

(...) Il terzo album dei Soft Machine nasce nel primo debutto dei seventies e quando arriva su vinile mostra immediatamente l'insanabile piega che han preso le cose Machine.
Wyatt non tarda a rendersi conto che gli Elton Dean e i Rab Spall hanno mire inquietanti appena entrati alle dipendenze di Ratledge. Quel che accade è che nell'imbracato e torrido jazz rock del nuovo 'Lp gli unici attimi genuini e "smarriti" (come nel passato recente) diventano i diciannove minuti e diciotto di
Moon In June. Ma la voce di Robert che cerca di opporsi in ogni modo virtuoso alle nuove spigolosità del sound dei colleghi, non è più quella equilibrata di una precedente versione scaturita per Top Gear (la cui testimonianza è chiusa in Triple Echo).
Si forma una faglia tra il pop-singer e il group, per lo più si dissente dall'uomo: non piace ai nuovi "herr director" suonare la "luna di giugno", specie in concerto. Mentre il nostro si affatica nell'apprendere le nuove formali di
Slightly All The Time e Out-Bloody Rageous, non c'è nessuno che si sforzi men che minimo per imparare i suoi brani. Come s'è detto, il nuovo album CBS mostra in vitro le nuove tentazioni davisiane e Wyatt sul rasoio delle ottave costretto ad accomodanti imperboli vocali. (...)
A.S. da Rockerilla n° 58 giugno 1985

- Fourth
(1970) Columbia col 473003 - cd

1. Teeth (M. Ratledge) 9.14 - 2. Kings And Queens (H. Hopper) 5.02 - 3. Fletcher's Blemish (E. Dean) 4.37 - 4. Virtually I (H. Hopper) 5.15 - 5. Virtually II (H. Hopper) 7.06 - 6. Virtually III (H. Hopper) 4.39 - 7. Virtually IV (H. Hopper) 3.18

Musicians:
Mike Ratledge,
Hugh Hopper, Robert Wyatt, Elton Dean, Roy Bobbington, Mark Charig, Nick Evans, Jimmy Hasting, Alan Skidmore

Produced by Soft Machine
Recorded at Olympic Studios, London on Autumn 1970
Engineering by George Chkiantz

Ultimo disco con Wyatt, la cui partecipazione pare svogliata e dovuta, e infatti non firma nulla.
I brani sono quasi tutti di Hopper, composizioni strumentali con partecipazione del consueto stuolo di jazzisti inglesi (Elton Dean, Mark Charig, Nick Evans, Jimmi Hasting, Alan Skidmore, più il contrabassista Roy Bobbington dei Delivery), impegnati in una serie di strumentali di buona levatura, ben arrangiati, suonati con professionalità, ancora impregnati di una minima patina progressiva che va però sbiadendo. Non è un brutto disco ma mancano del tutto le levate d'ingegno creativo di Wyatt e lo si nota subito.
Cesare Rizzi da Progressive & Underground, ed. Giunti

- Fifth
(1972) Columbia col 473002 - cd

1. All White (M. Ratledge) 6.06 - 2. Drop (M. Ratledge) 7.43 - 3. M C (H. Hopper) 4.54 - 4. As If (M. Ratledge) 8.23 - 5. LBO (J. Marshall) 1.31 - 6. Pigling Bland (M. Ratledge) 4.23 - 7. Done (E. Dean) 3.30

Musicians:
Mike Ratledge,
Elton Dean, Hugh Hopper, Phil Howard, John Marshall, Roy Bobbington

Produced by Soft Machine
Recorded at Advision Studios London, on November/December 1072 and January/February 1972
Engineering by Garry Martin

- Six
(1973) CBS Records 682114 - vinile

1. Fanfare (K. Jenkins) - 2. All White (M. Ratledge) - 3. Between (K. Jenkins/M. Ratledge) - 4. Riff (K. Jenkins) - 5. 37% (M. Ratledge) 6. Gesolreut (M. Ratledge) 7. E.P.V. (K. Jenkins) - 8. Lefty (Soft Machine) - 9. Stumble (K. Jenkins) - 10. 5 From 13 (J. Marshall) - 11. Riff II (K. Jenkins) - 12. The Soft Weed Factor (K. Jenkins) - 13. Stanley Stamps Gibbon Album (M. Ratledge) - 14. Chloe And The Pirates (M. Ratledge) - 15. 1983 (H. Hopper)

Musicians:
Mike Ratledge,
Hugh Hopper, Karl Jenkins, John Marshall

Produced by Soft Machine
Recorded at Advision Studios London on November and December 1972 and tracks 12 to 15 recorded live at The Dome,Brighton and at the Civic Hall, Guilford.
Engineering by Gary Martin and Roger Beale
Cover painting by Terry Pastor

Senza Dean, sostituito dal fiatista/tastierista Karl Jenkins (dei Nucleus), i Soft Machine danno un'ultima levata di ingegno con un album che non piace ai fans della prima ora ma che offre qualche motivo di interesse e riflessione.
Jenkins si è subito ritagliato un ruolo di primo piano nelle gerarchie interne, e il suo stile (l'uso dell'oboe, per esempio) conferisce carattere a un suono che andava spegnendosi.
E' un doppio album con due facciate dal vivo, occupate da altrettante suites, e due di studio, che mandano a compimento le lezioni di Terry Riley e Philip Glass più volte accennate nei tre dischi precedenti: musica minimalista, elettronica, pulsante, che è anche il canto del cigno del gruppo, da lì in avanti avviato rapidamente verso un jazz rock sbiadito e di routine.
Cesare Rizzi da Progressive & Underground, ed. Giunti

- Live In France
(1995) One Way ow 31445 - cd

1. Plain Tiffs (E. Dean) 3.32 - 2. All White (M. Ratledge) 6.23 - 3. Slightly All The Time (M. Ratledge) 13.09 - 4. Drop (M. Ratledge) 7.43 - 5. M.C. (H. Hopper) 2.59 - 6. Out - Bloody - Rageous (M. Ratledge) 13.25 - 7. Facelift (H. Hopper) 17.53 - 8. And Sevens (Soft Machine) 8.55 - 9. As If (M. Ratledge) 8.30 - 10. L.B.O. (J. Marshall) 6.08 - 11. Pigling Bland (M. Ratledge) 6.05 - 12. At Sixes (Soft Machine) 11.00

Musicians:
Mike Ratledge,
Elton Dean
, Hugh Hopper, John Marshall

Produced by Soft Machine

Già pubblicato dalla One Way Records come Live In France nel 1995, quest'importante concerto parigino del 2 maggio 1972 in veste Cuneiform beneficia di una migliore definizione audio, ma sopratutto dà l'ooportunità di sottolineare ancora una volta l'unicità del quartetto che durò il tempo della seconda facciata di Fifth.
Il commiato di Robert Wyatt dal gruppo a ridosso delle session di registrazione di quell'album fu il segnale evidente di un netto cambio di rotta musicale, la conferma che i Soft Machine non avevano più nulla a che fare con il rock patafisico, colto e propulsivo della scena canterburyana. Un paio d'anni prima l'arrivo dell'altoista Elton Dean aveva smembrato con la sua logica individualista l'uniformità del suono e acceso il fuoco a quel furore creativo e improvvisativo che approdò ai risultati mozzafiato di Third. Lo stesso Robert Wyatt è in qualche modo debitore nei confronti di Dean per le vesti capricciose che in quella sede seppe cucire addosso alla magnifica Moon In June ma la sua indole lo teneva comunque ancorato al versante del rock e del pop, strutture sulle quali la sua bellissima voce poteva librarsi ed esprimersi con tutta l'anticonvenzionalità di cui era messaggera. Così l'insistente sterzata verso il jazz elettrico e le sofisticate architetture strumentali di Fourth misero il bavaglio sulla bocca di Wyatt che senza pensarci un attimo lasciò amichevolmente la congrega per formare i Matching Mole. Compensare la perdita di Wyatt non fu ovviamente facile e la difformità delle due facciate di Fifth ne fu evidente conferma.
Se il sax di Elton Dean trovava una valida spalla nel palese vissuto jazzistico del batterista Phil Howard, il piano elettrico di Mike Ratledge e il basso di Hugh Hopper preservavano invece la loro inconfondibile voce solo con la percussività poliforme e duttile di John Marshall, in precedenza egregiamente sfruttata dal Jack Bruce di Song For A Taylor e dai Nucleus di Elastic Rock. Elton Dean dovette così sopportare a denti stretti l'imbarco di Marshall e il licenziamento di Howard, ci riuscì però solo per una ventina di concerti (e questo è uno di quelli) dopo di che abbandono i Soft Machine per unirsi ai progetti di Carla Bley, Keith Tippett e ai già ricelebrati Brotherwood Of Breath.
Il repertorio di Live In France prende dalle scalette di Third e Fifth fondendole in un'unica estesa jam composizioni quali All White, Slightly All The Time, Out-Bloody-Rageous, Facelifts, LBO (che dura almeno cinque minuti in più rispetto alla versione originale grazie ad uno splendido assolo di Marshall), And Seven e At Sixes. Tutti brani suonati ed eseguiti con un trasporto eccezionale, sopratutto da Marshall che oltre a splendide gamme ritmiche (da quelle più tenui a quelle più vibranti e sonore) instilla dappertutto un pathos swingante che lega bene con i fraseggi di Dean ed il discorso contrappuntistico di Ratledge.
Un disco che dà la misura di quanto il linguaggio dei Soft Machine fosse telepaticamente collegato a quello che Miles Davis parlava dall'altra parte dell'oceano in quello stesso periodo.
Olindo Fortino da Blow Up n° 74, luglio/agosto 2004

- Alive And Well
(1978) Neon 00023 - vinile

1. White Kite (K. Jenkins) - 2. Eaos (K. Jenkins) - 3. Odds Bullets And Blades I (K. Jenkins) - 4. Odds Bullets And Blades II (K. Jenkins) - 5. Song Of The Sunbird (K. Jenkins) - 6. Number Three (J. Etheridge) - 7. The Nodder (K. Jenkins) - 8. Surrounding Silence (R. Sanders) - 9. Soft Space (K. Jenkins)

Musicians:
John Marshall, Karl Jenkins, John Etheridge, Rick Sanders, Steve Cook

Produced by Mike Thorne
Recorded in Paris at The Theatre Le Palace, Monmartre on 6th, 7th, 8th and 9th of July 1977
Engineering by Paul Northfield
Cover photo by Daniel Decamps and Peter Lavery

- Legacy Live In Zaardam
(2005) Moonjune mjr 0006 - cd

1. Ash 11.30 - 2. 1212 12.01 - 3. Baker's Street 6.52 - 4. Kings And Queens 9.11 - 5. Two Down 2.44 - 6. Big Creese 8.32

Musicians:
Hugh Hopper, Elton Dean, John Marshall, John Etheridge

Recorded live at De Kade, Zaandam (Holland) on May 10, 2005
Engineering by Henk Weltereden and Bert Konig
Produced by Leonardo Pavkivic
Cover painting by Fernando Natalici

- Jet Propelled
(1967) Spalax 14816 - cd

1. That's How Much I Need You Now 2.24 - 2. Save Yourself 2.43 - 3. I Should've Known 7.28 - 4. Jet Propelled Photograph 2.31 - 5. When I Don't Want You 2.48 - 6. Memories 2.57 - 7. You Don't Remember 3.43 - 8. She's Gone 2.12 - 9. I'd Rather Be With You 3.40

Musicians:
Mike Ratledge,
Kevin Ayers, Robert Wyatt, Daevid Allen

Produced by Giorgio Gomelski
Recorded in London on April 1967

Sono prove di registrazione del 1967 prodotte da Gomelski in preparazione al primo album, in formazione a quattro con Daevid Allen. E' il disco più pop dei Soft Machine ma anche quello con le tracce psichedeliche più immediate, in forma di melodie trasversali, memorie barrettiane, progressioni jazzistiche, improvvise virate strumenali, e una generale imprevidibilità compositiva, ancor più se rapportata al periodo. Wyatt canta con voce tesa fino alla rottura e suona la batteria come mai si era visto nel rock.
Cesare Rizzi da Psichedelia ed. Giunti